Inizio questa mia collaborazione con La Città invisibile con una brevissima dichiarazione d’intenti:
Una canzone, un brano di musica classica, una melodia della nostra tradizione orale, una monodia medievale, una polifonia cinquecentesca, sono piccole cose rapportate all’andamento della vita nei suoi massimi sistemi economici e politici…
Sono piccole cose? Ho sempre creduto che ci sia, nella pratica dell’appiattimento culturale, una strategia che viene da molto lontano tesa ad accecare e a intorpidire il nostro senso critico anche e soprattutto togliendoci la curiosità della conoscenza e la voglia dell’approfondimento a favore di un bieco e sterile concetto di “marketing” che ha bisogno di vendere oggetti di bigiotteria di scarso valore come fossero pietre preziose. Non bisogna invece MAI dimenticarsi che dietro a un brano di musica classica c’è un uomo o una donna e la sua vita, dietro a un’antica monodia ci sono persone e contesti storici precisi, dietro a un canto di tradizione orale c’è una comunità, il suo tessuto sociale e i suoi rituali: tutto ciò merita il rispetto e la lentezza artigianale dell’approfondimento. E poi, soprattutto, c’è l’accedere alla “bellezza” come bene comune che non deve mai essere considerato un oggetto privato in vendita (anzi, in svendita) ma modello condiviso per noi e soprattutto per le generazioni a venire, come strumento per la costruzione di una società migliore.
In questo primo appuntamento voglio parlarvi di un brano molto sentito in Toscana perché arrivato dalla ricerca che Caterina Bueno effettuò, di pari passo con gli altri ricercatori dislocati in varie parti d’Italia, negli anni ’60 e ’70. Si tratta di E lu trenu di Bastie.
Però… però tutti ne ricordano la sua versione (io ne ho una degli anni ’70 con le voci originali delle Casciane). Utilizzato poi in vari “surrogati” (cioè senza che nessuno si prendesse la briga di risalire alle fonti) è diventato un motivetto senza troppe pretese e di cui si è sempre detto “di vaga provenienza còrsa”…
Cercando (ormai la ricerca è molto facilitata!) mi imbatto subito in tantissime notizie e versioni dell’originale còrso e… mi trovo, fatte le debitissime distanze, davanti a un brano che potrebbe agganciarsi alle odierne contestazioni della Val di Susa!
Il testo dice:
U trenu chì và in Bastia
Hè fattu per li signori;
Pienghjenu li carritteri
Suspiranu li pastori;
Per noi altri osteriaghji
Sonu affani è crepacoriAnghjulì lu mio Anghjulinu
Pensatu n’aghju una cosa,
Quand’ellu passa lu trenu
Tirali una mitragliosa,
E’ li sceffi chì sò nentru
Voltali à l’arritrosa.Anghjulì lu mio Anghjulì
Datti un pocu di rimenu,
Vai è feghja issu catinu
S’eelu hè viotu o s’ellu hè pienu,
Ch’avimu da prisentallu
A’ lu sceffu di lu trenu.A’ ch’hà inventuatu lu trenu
Hè statu una brutta ghigna,
Li ghjunga u filosserà
Cum’ell’hè ghjuntu à la vigna,
Li scaschinu li capelli
Incù la più forte tigna.Ci vogliu piazza un forte
In paese di Cervioni,
E’ nantu ci vogliu mette
Più di trecentu cannoni;
Quand’ellu passa lu trenu
Spianalli li so vaggoni.
“Scritto” (in realtà tramandato per tradizione orale) dalla proprietaria cieca di una locanda di E Piane, Maria Felice Marchetti, che racconta come la costruzione della linea ferroviaria in Corsica, cominciata nel 1888, in realtà favorisca solo i signori nei loro spostamenti mentre tutte le varie piccole e medie attività come la sua, che si trovavano lungo la strada, finiscono nell’abbandono.
Maria Felice, oltre a parlare di “mitragliosa e cannuni” augura a colui che ha inventato il treno la cosa peggiore che potesse capitare nell’isola in quell periodo, insieme alle febbri malariche, e cioè di prendersi…la fillossera!
Ecco l’audio della canzone con una delle varie versioni esistenti ben conosciute e ancora presenti nella memoria di gran parte dei còrsi più anziani.
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la data non è 1988 ma 1888
Grazie! Ovviamente…1888! 🙂
Francesca Breschi
Grazie mischa. Refuso corretto.