“Creditocrazia e rifiuto del debito illegittimo” di Andrew Ross (link ad una conversazione con l’autore) affronta la problematica del debito secondo tutta una serie di prospettive a partire principalmente dalla situazione negli USA, ma non trascurando i fatti più indicativi di quella nel resto del mondo. L’autore svolge così un excursus sul fenomeno per il quale l’uomo contemporaneo è completamente immerso in una situazione debitoria a partire dal dover far fronte ad alcune esigenze fondamentali: l’abitazione, l’istruzione e la salute. Questa situazione ha determinato lo spostamento della conflittualità da quella messa in atto nei decenni precedenti che invece era legata alla produzione industriale e che era imperniata intorno al tema del salario e alle condizioni di vita all’interno della fabbrica.
Se il debito verso l’estero dei paesi in via di sviluppo è stato l’elemento che più ha permesso il mantenimento della loro subordinazione in epoca post coloniale, lo stesso meccanismo sta agendo nei confronti delle nazioni periferiche del comparto nord-occidentale. Si suggerisce allora la ricerca di soluzioni facendo proprie le esperienze delle lotte messe in campo per l’azzeramento del debito di dette popolazioni, soluzioni queste applicabili anche al nord del mondo, là dove ormai il meccanismo del debito è la causa più incisiva nel provocare l’allargamento delle diseguaglianze. La prima operazione è quella di dimostrare l’illegittimità del debito stesso per poter successivamente richiederne la sua soppressione. Essa sarà totale o parziale in relazione alla legittimità o meno degli elementi che sono emersi. La considerazione più generale è che il “sistema del debito” stia agendo in maniera asfissiante anche all’interno delle democrazie contemporanee allargando sempre di più le diseguaglianze socio economiche delle popolazioni. Le sue fondamenta sono facilmente interpretabili e criticabili. Il dato di fatto è che le banche private hanno messo in piedi meccanismi sempre più sofisticati in favore dei profitti, scaricandosi sempre di più dei rischi che certe “scommesse” comportavano, rovesciandoli di fatto sull’intera popolazione. Il risultato è che le banche hanno abbondantemente lucrato all’interno di questa situazione ed anche quando hanno esagerato sono state salvate perché “troppo grandi per fallire”. La situazione attuale può far dire all’autore che essendo il sistema bancario stesso il soggetto creditore ed essendo stato ampiamente remunerato dagli interessi sin qui riscossi, sarebbe legittimo pretendere l’annullamento del credito residuo. Occorre però smascherare i meccanismi messi in atto sino ad adesso per dimostrare l’illegittimità di alcune pretese e questo viene svolto egregiamente nella prima parte del libro all’incirca nei primi quattro capitoli. Il quinto invece rovescia le carte mettendo in campo il debito climatico che certi comportamenti hanno creato con tutta una serie di considerazioni attraverso le quali poter mettere in atto una forma di compensazione tra paesi ad alto consumo energetico e quelli in via di sviluppo, per poter armonizzare i diritti delle rispettive popolazioni in vista anche di un consumo più sostenibile delle risorse di materie prime e di quelle energetiche.
L’ultimo capitolo si pone appunto il problema di sciogliere l’unione tra debito e crescita in relazione alla sostenibilità di quest’ultima, verificando gli strumenti che in varie parti del mondo sono stati adoperati per scardinare l’oppressione del debito stesso.
Anche in questo caso l’autore legge nei meccanismi del debito l’esistenza di un dispositivo che riesce ad occultare i reali interessi in atto e a tenere basso il livello di conflittualità conseguente alla loro messa in opera, constatando identicamente ad altri autori la capacità diffusa del debito/credito di operare nei confronti dei termini della soggettivazione e quindi della capacità di assoggettamento che il sistema riesce a realizzare. Il connubio debito-colpa che, in chiavi diverse avevano caratterizzato l’analisi di altri autori, è egualmente affrontato ma non riconoscendogli il valore dominante espresso da questi. Diciamo che, questa chiave di lettura, se può aiutare la spiegazione di situazioni create dal meccanismo o dal dispositivo, tende poi a coincidere nel ricercare le forme di lotta per poter uscire da questa perversa e antidemocratica situazione; in definitiva dall’asservimento al debito e, di conseguenza, a quell’un per cento di creditori che hanno approfittato dalla messa in opera del meccanismo. Si potrà perciò verificare come i contratti di debito abbiano svolto egregiamente il lavoro di restringere la democrazia. E di come la condizione debitoria non rappresenti un fine in sé, ma piuttosto uno strumento per consentire una maggior dipendenza del lavoro dal capitale all’interno dei modi di produzione e scambio contemporanei. «I proprietari del capitale hanno da tempo superato il luogo di lavoro, inserendosi nella “fabbrica sociale” della vita quotidiana. La loro portata estrattiva ora raggiunge ogni attività quotidiana, così lo sfruttamento attraverso il debito personale interviene su ogni aspetto dell’individualità» (p.81). Questo equivale in qualche modo alla lettura data da Lazzarato nel saggio recensito in precedenza e cioè che il capitale ha messo in atto una serie di meccanismi di assoggettamento che operano direttamente sull’individuo, tanto da poter inserire queste strategie all’interno di un dispositivo che ben rappresenta il modo di agire del capitale contemporaneo e ne esprime la sua potenza.
Il libro di Ross riporta dunque a quegli eventi e a quelle scelte che hanno permesso l’espandersi del sistema del debito e quindi a fondare quella che lo stesso Ross chiama una creditocrazia nella quale il futuro sembra essere confiscato. Una di queste fu, ad esempio, la possibilità concessa alle banche di dare in prestito quantità di denaro enormemente più alte di quelle realmente possedute, a partire dalla creazione nel 1938 della Federal National Mortgage Association (detta Fannie Mae) che permetteva il commercio delle ipoteche in modo tale che gli istituti di credito avevano la possibilità di rivendere i debiti, e quindi di poter prestare molto più denaro di quello posseduto, troveremo così che nel 2008 «il rapporto tra attività e capitale era di 61,3 a 1 (pp. 64-65). L’apporto di Fannie Mae ha caratterizzato il dopoguerra degli Stati Uniti in maniera così profonda da far affermare all’autore che «i pieni diritti di cittadinanza erano riservati a chi era entrato in un rapporto debitorio di lungo termine con una banca commerciale» (ibidem), provocando così una trasformazione per la quale il diritto alla casa divenne il diritto all’accesso al credito così come il diritto all’istruzione era diventato il diritto di accedere ai prestiti studenteschi. In questa atmosfera occorre collocare l’atteggiamento per il quale la vittima doveva sentirsi in colpa per la sua situazione debitoria anche se quest’ultima era stata provocata da creditori che aggressivamente avevano commercializzato prestiti ad alto rischio.
Altro evento responsabile della situazione attuale è stato l’avvento della cartolarizzazione delle carte di credito nel 1986. Spostare il debito delle carte fuori dai propri libri contabili ha permesso alle banche di capitalizzare ancora più prestiti. L’enorme potere in mano alle banche ha interagito con quello politico permettendo alle stesse privilegi impensabili: La Bank of America non ha pagato tasse federali nel 2010, ma ha avuto 1,9 miliardi di dollari di sconto dal fisco americano ed ha ricevuto 1340 miliardi di dollari dalla Federal Reserve come parte del salvataggio del 2008.
Il libro è ricco di dati che dimostrano come i creditori abbiano per decenni strappato ricchezza ai debitori sino ad aver rimborsato più volte il prestito ottenuto. Tutto questo rende legittima la domanda per una rinegoziazione del prestito stesso, se non il suo totale azzeramento. Afferma infatti Ross: «La lunga lista di frodi ed inganni da parte dei banchieri delegittima il loro diritto a essere rimborsati» (p.82). Lo sfruttamento attraverso i meccanismi del debito precede e accompagna il conflitto sul salario, emerge come dominante nelle società finanziarizzate ma accompagna e rende efficace la subordinazione anche in quelle a predominio industriale. L’attuale sfruttamento del debito studentesco negli Stati Uniti equivale in qualche modo a quel sistema di asservimento che si produceva con una specie particolare di contratto detto “indenture”. Esso permetteva ai migranti europei di pagarsi il viaggio in cambio della loro futura prestazione d’opera, questo li asserviva totalmente per un certo numero di anni. Che lo si chiami indenture o semplicemente lavoro non pagato, gli esempi sono comunque di vario tipo. È diventato di moda l’offrirsi come volontario, lavorare gratis per rendersi visibile, in questo consisterebbe quella che il capitale chiama la giusta competizione per affermare una meritocrazia che i contratti collettivi avevano oscurato. In questa atmosfera è facile imbattersi in altre forme di lavoro non pagato che, per assurdo, innescano di nuovo il circolo vizioso del debito/credito; le riforme dei contratti di lavoro comprendono ad esempio l’obbligo di stage non retribuiti per i quali non è insolito chiedere prestiti per campare nel periodo dello stage stesso. Eppure dovrebbe essere il contrario come già faceva notare Marx: il caso del lavoro salariato che sarebbe la sola merce che si paga dopo averla utilizzata, tanto che, fare l’opposto, viene chiamato “anticipo” e si usa soltanto in questo caso. Si tratta dunque di debiti esistenziali per di più contratti contro il proprio vero essere annettendo gli individui ad un sistema che li prevarica esercitando un controllo che comprende ogni fase della loro vita tanto da poter paragonare l’attuale situazione alla condizione della servitù feudale.
Il ripudio di questi debiti, la loro abolizione sono dunque oggi l’imperativo assoluto di ogni lotta per la dignità umana. Il fondamento di questo dispositivo di assoggettamento è basato su una spinta di tipo morale che determina l’ingiunzione a restituire e costituisce la spina dorsale del capitalismo finanziario contemporaneo, «così come lo era il controllo salariale per i capitalisti industriali come Ford» (p. 135). Dal punto di vista morale si assiste perciò ad una sostituzione del fannullone e del buono a nulla con quella della vergogna e della colpa connesse al sistema del debito. A questo stato di fatto ha contribuito anche la retorica della mobilità, del lavoro creativo, del capitale umano che consisterebbe in una disponibilità a investire se stessi con il rischio quasi assodato di cadere in uno stato di totale assoggettamento al sistema.
L’ultimo capitolo studia le connessioni tra concetto di crescita e sistema debito/credito, dove per crescita non si intende la prosperità degli abitanti del pianeta, ma quella del PIL che invariabilmente ingrasserà le tasche dei più ricchi a scapito appunto dell’ampia maggioranza costituita dal resto. La connessione si spiega principalmente con il meccanismo per il quale la crescita esponenziale del capitale prodotto dal credito si basa anche sulla possibilità di cartolarizzazione dei debiti che è legata alle previsioni di crescita. Senza crescita non si avrebbe quel plus valore che alimenta l’entità e l’efficienza dell’operazione di cartolarizzazione poiché in essa si vendono delle scommesse basate sulla crescita, per cui, senza di essa, non ci sarebbe nessuna scommessa e quindi nessun guadagno finanziario. Rimane un dubbio, quello per il quale «le elite avrebbero colto il messaggio dei “limiti dello sviluppo”» al quale avrebbero «risposto accumulando tutte le risorse che potevano estrarre dal bene comune» (p.180).
Per terminare occorrono ovviamente delle via di uscita. Ross cita tutta una serie di iniziative per spuntare la forza assoggettante del debito. Cita anche tutte quelle pratiche virtuose che tendono ad organizzare il sociale al di fuori del paradigma creditizio. Molte di esse si svolgono all’interno del sistema capitalistico, altre ai margini, entrambe comunque atte a coagulare comportamenti critici verso questo tipo di capitalismo con l’obbiettivo non tacito del suo superamento.
Sicuramente ogni azione politica contemporanea non può prescindere dall’analisi dei meccanismi messi in atto dal sistema debito/credito. Il Libro di Ross è ricco di queste riflessioni e informazioni per di più connesse tra loro di nuovo a sottolineare la possibilità della messa in atto di un dispositivo che segna il modo di agire del capitalismo contemporaneo e gli effetti assoggettanti per le sue vittime riprendendo però le ipotesi che Lazzarato ci aveva consegnato, in maniera più blanda e non così assoluta di quella lasciataci dall’autore recensito precedentemente.
Andrew Ross, “Creditocrazia e rifiuto del debito illegittimo”, Ombre corte, Verona 2015, pagine 194, € 18.00.
Gilberto Pierazzuoli
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