Il commissariamento del comune di Roma deciso dal Consiglio dei ministri il 27 agosto scorso è la dichiarazione del totale fallimento delle ricette della semplificazione e della cancellazione dei controlli di merito che da quasi trenta anni è stato il principale obiettivo della classe dirigente dell’Associazione dei costruttori italiani e che la politica senza autonomia culturale ha accettato supinamente.
La stagione iniziò alla fine degli anni ’80, dopo l’approvazione del primo condono edilizio: il Parlamento iniziò la discussione sulla progressiva liberalizzazione delle procedure per ottenere i permessi a costruire. La filosofia che reggeva quella spinta era che la burocrazia ritardava il dispiegarsi dell’economia. L’accordo tra i due schieramenti politici fu totale e iniziò la fase dell’automatismo nelle possibilità di costruire. Il secondo pilastro dell’azione demolitrice della funzione pubblica iniziò subito dopo, a partire dal 1993, quando Franco Bassanini, allora ministro del primo governo post Tangentopoli approvò la riforma che cancellava i controlli di merito fino ad allora affidati ai Co.re.co [comitati regionali di controllo, ndr] e orientava la funzione pubblica verso un sistema senza contrappesi in cui il sindaco eletto dal popolo poteva decidere senza contrappesi istituzionali anche nella delicata materia urbanistica che, come noto, provoca enormi spostamenti di ricchezza nel gioco della rendita. Ulteriore passaggio è stato quello di annullare anche i poteri di controllo dello Stato, dalle Soprintendenze alle stesse Autorità di bacino fino al rispetto dei piani paesaggistici.
La vicenda romana è la figlia primogenita di questa cultura.
La stagione dell’urbanistica basata ogni volta attraverso accordi di programma; l’invenzione giuridica dei “diritti edificatori”; le compensazioni urbanistiche; le grandi opere sono state i tanti capitoli di un progressiva scomparsa dell’azione pubblica di controllo delle trasformazioni. A questo filone di pensiero si è infine aggiunta la cultura della privatizzazione delle funzioni pubbliche fino ad allora svolte in-house a soggetti privati. Questo affidamento è avvenuto attraverso la più ampia discrezione. Raffaele Cantone, integerrimo magistrato oggi a capo dell’autorità di controllo degli appalti pubblici, dopo aver giudicato “criminogena” la struttura della Legge obiettivo berlusconiana ha di recente reso noto che a Roma nel periodo 2012-2014 sono stati affidati senza gara di evidenza pubblica 3 miliardi di euro opere o servizi.
Sono questi i motivi strutturali che hanno causato la tragica spirale di Mafia criminale: se la capitale del paese è caduta nelle mani di gruppi di malavita organizzata collusi con la politica corrotta non è soltanto a causa di “normali” e reiterati episodi di corruzione. Siamo invece di fronte ad una fase in cui la politica ha potuto decidere tutto ciò che ha voluto non in spregio delle leggi ma nella loro piena applicazione. È con le procedure di urgenza previste a iosa nella legislazione liberista che si sono potuti affidare appalti ad imprese amiche o mafiose.
Questa stagione è arrivata al fallimento. Un fallimento – è bene ricordarlo – che non riguarda soltanto Roma ma che è emersa in ogni luogo del paese: lo dimostrano le vicende dell’urbanistica di Sesto San Giovanni; il Mose; l’Expo e Infrastrutture lombarde; il sottoattraversamento ferroviario di Firenze; e via nei tanti casi minori.
Di fronte a questo fallimento occorreva cimentarsi con la complessità delle cause e mettere mano in modo sistematico allo smantellamento della legislazione derogatoria ed emergenziale che ha distrutto lo Stato. La decisione del commissariamento del comune di Roma dimostra che non si vuole voltare pagina. Il Consiglio dei ministri ha affidato infatti il controllo degli atti di affidamento di appalti e di servizi pubblici di Roma all’Anac di Cantone sotto il coordinamento del Prefetto. Prima di avere piena validità, gli atti comunali dovranno portare il visto di altre due autorità di governo: siamo dunque di fronte ad un provvedimento di natura diametralmente opposta alla cultura della “semplificazione”: si prende atto insomma del fallimento.
Ma Renzi e i suoi consiglieri hanno deciso di non affrontare l’uscita dalla spirale provocata dalla loro stessa cultura. Pur dovendo prendere atto della necessità di istituire efficaci forme di controllo, Renzi ha deciso di affidare il coordinamento delle operazioni di appalto al Prefetto. Dal punto di vista generale è un evidente ritorno indietro verso figure istituzionali centralistiche e monocratiche che avevano gradualmente lasciato il posto al decentramento e al controllo democratico.
Il consiglio comunale di Roma non conta più nulla: con la ricetta Renzi rischiamo di vedere esportato questo modello all’Italia intera mettendo a rischio la democrazia comunale: il governo si guarda al futuro ripristinando l’ottocento. Si apre dunque una nuova sfida per i movimenti che in questi anni hanno difeso il paesaggio e le città: cancellare la legislazione che ha causato il disastro e ripristinare le regole del governo urbano.
*Paolo Berdini, urbanista
Paolo Berdini
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