Nel centro storico di Firenze risultano ogni anno 9.400.000 presenze turistiche in strutture alberghiere, cui vanno aggiunti altri 5.400.000 circa ospitati in altri luoghi, per un totale di 14.800.000 pernottamenti complessivi. A queste vanno aggiunti i 3.600.000 di turisti mordi e fuggi che non pernottano, di cui 300.000 croceristi. In tutto, quindi le presenze turistiche in città sarebbero valutabili in 18.400.000. I fiorentini che frequentano abitualmente il centro storico risultano essere 137.000. Portandoci su calcoli giornalieri, ciò significa che ogni giorno 376 cittadini si trovano a dover fronteggiare un esercito di 50.410 turisti in stragrande maggioranza concentrati fra piazza del Duomo e piazza Pitti. Questi dati sono il risultato di un’indagine fatta da Vodafone tramite i cellulari e pubblicata da La Nazione il primo ottobre scorso e sono molto più allarmanti di quelli dati dall’Amministrazione Comunale, che si basa solo sulle presenze alberghiere.
Quasi tutti questi turisti vengono perché attratti dal patrimonio culturale della città. Ma in che rapporto si pongono con questo? E quali ne sono le conseguenze? I musei italiani sono stati dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione fino al 1974, anno in cui fu fondato il nuovo Ministero per i Beni culturali e Ambientali. L’arte, quindi, era intesa come pilastro fondante dell’istruzione. Nel 1998 prese il nome di Ministero per i Beni e le Attività Culturali, includendo nelle attività culturali lo spettacolo e lo sport (!) e infine nel 2013 è divenuto il Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo. E’ stato così sancito che i beni culturali, come il turismo, sono una risorsa per lo sviluppo economico e non per lo sviluppo culturale. Anzi, direi che lo scopo economico è diventato, se non l’unico, sicuramente quello prevalente.
Su questa strada i musei giocano un ruolo fondamentale, in quanto permettono di razionalizzare al massimo lo sfruttamento economico del patrimonio culturale riunendo grandi masse intorno a pochi capolavori. Ma per funzionare meglio rispetto al loro nuovo scopo conveniva fossero trasformati in aziende, come precisamente ha fatto tre anni fa la legge Franceschini che ha dato la gestione dei venti musei a maggior reddito in Italia in mano ad altrettanti consigli di Amministrazione, composti, oltre che dal Direttore del museo, da altri quattro membri nominati dal Ministero, di cui uno designato d’intesa con il Ministero dell’Università e uno d’intesa con il ministero dell’Economia e delle Finanze.
Appena esso confligga con gli interessi economici viene meno ogni scopo formativo e didattico dei musei, che è stato uno dei motivi storici per cui la maggior parte di essi sono stati fondati, mentre sempre più spesso, inevitabilmente, viene meno lo scopo protettivo e conservativo nei confronti delle opere. Lo ha dimostrato l’episodio della chiusura degli Uffizi questa estate a causa dalla siccità e, comunque, come sanno bene gli addetti ai lavori, con l’afflusso attuale di pubblico non esiste sistema di condizionamento o di pulizia dell’aria che possa dare garanzie. Sfido qualsiasi tecnico serio a dimostrare il contrario.
Inoltre, in quest’ottica perversa diventa necessario musealizzare il numero maggiore possibile di opere, per ricavare profitto dalla loro fruizione, e da qui il proliferare nel contesto urbano di copie, non sempre giustificate, che vanno a sostituire gli originali, con perdita netta di significato agli occhi di chi non paga il biglietto.
I grandi cambiamenti passano a volte da piccoli segni che possono sembrare irrilevanti, ma che, se letti lucidamente, aiutano a tracciare il disegno di ciò che sta accadendo. Fra questi “piccoli segni” vale la pena di ricordarne alcuni: il progetto per la nuova disposizione di alcune delle sale degli Uffizi, pensato in maniera tale da permettere una visita veloce limitata ad alcune opere scelte (“capolavori”) fra quelle di maggiore interesse turistico e la recente presentazione del logo coordinato delle Gallerie degli Uffizi, per cui è stato usato il termine brand. Un semplice cambio di nome, ma significativo se si considera che in quegli stessi giorni la Camera di Commercio di Firenze teneva un seminario sulla necessità che i musei facciano rispettare le regole del branding. Ormai la politica culturale a Firenze è dettata solo dalle esigenze di fare cassa. Ci piaccia o no è un dato di fatto. A suggello di questo ricordiamo che a Firenze la stesura del recente regolamento per il centro UNESCO è stata affidata all’Assessorato allo sviluppo economico e non all’Assessorato alla Cultura, che è stato solo sentito. Per quanto l’Assessorato alla cultura poco conti di per sé, non avendo Assessore proprio.
Del resto gira anche la voce che per aumentare ulteriormente il numero dei turisti che al nostro Sindaco sembrano pochi (si veda il progetto del nuovo aeroporto che dovrebbe far sbarcare 6 milioni di turisti a fronte dei 2 attuali) sarà necessario spostare certe icone turistiche come il David di Michelangelo, in spazi urbani più periferici. Se ciò avverrà si compirà un altro passo verso il progressivo impoverimento del senso e quindi delle capacità comunicative delle opere d’arte, in quanto rimosse dal loro contesto.
Forse dobbiamo cominciare a pensare che l’istituzione museo ha fatto il suo tempo e oggi come oggi non serve più alla cultura, ma a chi si arricchisce facendo della cultura solo una merce.
Ma cosa succede ai settori che non creano reddito facile e veloce? Vengono abbandonati brutalmente, come è accaduto per il territorio, cioè per tutto quel patrimonio che è lasciato alla libera fruizione (beni ecclesiastici, collezioni private, musei di enti o fondazioni) o che è conservato in musei che realizzano introiti minori, pur essendo magari di massimo interesse culturale. E siccome questo momento storico si distingue non tanto e non solo per la corruzione diffusa della nostra classe politica, quanto per la rozzezza e ignoranza di molti dei suoi componenti, a Firenze sono stati inseriti fra i musei territoriali anche il museo di San Marco e il Museo Archeologico Nazionale. Tutto il patrimonio del territorio è attualmente lasciato pressoché privo di risorse umane ed economiche.
Devo dire che, se in queste condizioni resta maggiormente esposto al degrado del tempo e a possibili danneggiamenti di varie origini e cause, resta però al sicuro dalla stupida avidità di chi vuole sfruttarlo ad ogni costo. E quando sarà passata la nottata, forse avrà sofferto meno che il patrimonio dei grandi musei. Forse. O forse avremo perso il carattere peculiare del nostro paese che è quello di presentarsi come un unico grande museo diffuso.
Come sostiene Marco D’Eramo nel suo Il selfie del mondo, Indagine sull’età del turismo, l’attività dell’UNESCO di fatto alimenta la musealizzazione delle città di cui poi combatte le conseguenze. Nel passato le città sono sempre cresciute costruendo il nuovo sull’antico o spesso anche distruggendo l’antico. Il legante era la qualità e ciò che ne scaturiva era un tessuto urbano vario e vitale. Il fenomeno della conservazione a tutti i costi e della sola conservazione è un fenomeno dei nostri giorni, direi del secondo dopoguerra.
In particolare per il centro storico di Firenze il contemporaneo è stato bandito in quanto non funzionale al progetto di sfruttamento ai fini economici dell’eredità del passato. Essa rende così bene e occupa così saldamente l’immaginario collettivo dei turisti di tutto il mondo che qualsiasi iniziativa sul contemporaneo richiede enormi energie per ottenere un piccolo risultato.
Ne conseguono effetti negativi sotto vari aspetti, a partire da quello architettonico, ambito in cui si è assistito ad una sorta di monopolizzazione della città da parte di un solo studio (Natalini) e all’esclusione di qualsiasi progettista di fama internazionale (area ex Fiat Brandini in viale Belfiore, loggia di Isozaki, Calatrava al museo dell’Opera del Duomo). Di fatto dopo la stazione di Santa Maria Novella a Firenze non si è più costruito nulla di rilevante e aggiornato. Altrettanto si deve dire della progettazione degli arredi urbani, affidata agli uffici del Comune, che si muovono ignorando totalmente la necessità di una visione generale e unitaria, mentre sempre più spesso il livello qualitativo non risulta consono al luogo in cui vengono installati (Sistemazione di piazze storiche, come santa Maria Novella e ora piazza del Carmine e piazza Tasso, sculture di mero valore decorativo, come la statua del Mazzini all’inizio di viale Mazzini, il san Giovanni Battista di Vangi, i piccoli bronzi del ponte San Niccolò).
In compenso la contemporaneità ci invade in maniera sempre più aggressiva tramite il canale degli eventi e delle mostre temporanee negli spazi pubblici, come in piazza della Signoria, iniziative spesso calate dall’alto con decisioni assai discutibili e comunque non partecipate né del tutto trasparenti, ma che comunque fanno molto parlare e smuovono denaro per altre vie che non attraverso il turismo. Vorrei ricordare a questo proposito la “strana storia” dell’affresco di Talani che deturpa da 11 anni la grande sala di ingresso della Stazione di Santa Maria Novella, opera allora sponsorizzata da Vittorio Sgarbi e subita dalla Soprintendenza ai Beni ambientali e architettonici che la autorizzò nel 2006 per soli sei mesi.
Così non si sviluppa alcuna vera sensibilità al contemporaneo e la città subisce inerme e sconcertata interventi che non ha voluto e che non apprezza e che sottraggono alla normale vivibilità spazi importanti per lunghi periodi dell’anno. Si assiste ad un aspetto particolare di un allarmante fenomeno purtroppo ampiamente diffuso in questa città, la privatizzazione dei beni pubblici, in questo caso gli spazi. In questo senso può essere vista anche la destinazione dell’ex Tribunale a Museo di Franco Zeffirelli e forse non sarebbe male collegargli la mostra di Lagerfeld e le iniziative di moda agli Uffizi con tanto di giacca griffata esibita dal Direttore.
Ma ancor più stiamo sottraendo ricchezza e opportunità alle generazioni future: Il patrimonio del passato lo stiamo consumando a velocità insostenibile, così come accade per le principali risorse del pianeta, mentre nessun impegno è orientato al sostegno e alla visibilità dei giovani artisti e artigiani.
Insomma, mentre nel passato si distruggeva Borgo Pio ma si costruiva San Pietro, oggi sulle macerie di ciò che si distrugge non si costruisce altro che lo spropositato potere di alcuni.
Piazza della Signoria, andrebbe data ai giovani artisti emergenti, anziché a chi la occupa ora.
*Franca Falletti
Il presente testo è la trascrizione del contributo dell’autrice all’incontro “Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo”, con Marco D’Eramo, Ilaria Agostini, Ornella De Zordo e Clash City Workers. L’incontro, tenutosi a Firenze il 21 ottobre 2017, è il primo appuntamento del ciclo “La fabbrica del turismo nelle città d’arte: il caso Firenze” organizzato dal laboratorio politico perUnaltracittà e CCW.
Franca Falletti
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Signora FALLETTI, avevo già ascoltato il suo intervento registrato e ci torno ora per un breve appunto che riguarda l’architettura contemporanea.
Non è vero che “il contemporaneo è stato bandito” e che dopo “la stazione di Santa Maria Novella a Firenze non è stato costruito nulla di rilevante a aggiornato.” A livello architettonico ci sono le opere di Detti nei pressi di piazza Savonarola ed all’Isolotto e quelle di Ricci e Savioli a Sorgane, per la via che porta al cimitero di Soffiano, oltre che il ponte sull’Arno in prossimità Anconella. E’ solo un accenno, le conosce queste opere? Vuol venire a vederle con me?
Per il resto il suo è un ottimo articolo e per me Michelucci a Firenze non vale nulla….. La saluto, Roberto
riceviamo da Franca Falletti questa risposta al commento:
“Gent. Sig. Roberto, io intendevo dire nulla a rilevanza internazionale. Credo che Firenze, accanto a Leon Battista Alberti, a Brunelleschi e a Michelangelo, meriterebbe oggi dello opere contemporanee di pari livello. Naturalmente questa è la mia opinione e accetto ben volentieri la sua che diverge, con tutto il dovuto rispetto”.