Gli “Akka”: una piccola storia ignobile del colonialismo ottocentesco

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La Nazione, quotidiano di Firenze, il 10 giugno 1874 riportava un trafiletto nella rubrica “Cronaca della Città”, dove si dava conto di un fatto avvenuto il giorno precedente: “Col treno delle 7 e mezza antemeridiane giunsero ieri da Roma i due piccoli Akka, di cui tanto parlarono i giornali, soprattutto quelli della Capitale”. Il Sindaco Ubaldino Peruzzi aveva allertato il mondo scientifico fiorentino affinchè assistesse all’evento e, primo tra tutti, Paolo Mantegazza, fondatore della disciplina antropologica in Italia e professore di Antropologia all’Università di Firenze. Ma chi erano i due ospiti annunciati e perché tanta curiosità per il loro arrivo?

Da qualche tempo si era creata una curiosità relativamente all’esistenza di un popolo in Africa dai tratti fisici peculiari, i cosiddetti Pigmei, che alcuni viaggiatori europei dicevano di aver incontrato nelle loro spedizioni. Le ragioni di questa curiosità vanno ricercate nell’atteggiamento colonialista europeo, e precolonialista italiano, in Africa. L’esistenza di popoli “primitivi”, ancora meglio se piccoli di statura e con i tratti tanto diversi dagli europei, era funzionale alla giustificazione propagandistica di interventi “civilizzatori”, mirata al consenso popolare verso le politiche espansionistiche. Gli scienziati, dal canto loro, erano ossessionati dalla ricerca di linee evoluzionistiche della storia naturale dell’uomo. Il viaggiatore e naturalista veneto Giovanni Miani, in cerca di onori, denaro e riconoscimenti scientifici aveva viaggiato a lungo in Africa alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Nel maggio 1872, venuto a conoscenza di una spedizione tedesca nel Monbuttu, decise di spingersi nelle regioni, praticamente inesplorate, del bacino del fiume Uele, in Congo.

Raggiunse la corte del Re Munsa, dove, insieme a vario materiale di studio e collezioni naturalistiche, “acquistò” i due bambini di cui stiamo parlando. Fa orrore questa cronaca di persone, di ragazzini, che diventano bottini da esporre, al pari di oggetti, acquistabili nella terribile logica schiavista. Ma questa è la cronaca della storia che raccontiamo. Accadde poi che nel mese di novembre Miani morì per le conseguenze di una brutta ferita e per gli stenti del viaggio. Tutto il materiale che aveva “raccolto”, ragazzi compresi, fu condotto in Egitto e sequestrato dal Viceré. Proprio in Egitto cominciò la disputa sull’eredità di Miani, contesa dal Governo Italiano e da quello Sudanese, dove il viaggiatore aveva soggiornato e diretto un museo. Già da questo momento i poveri ragazzi divennero l’attrazione di studiosi, gente comune, giornalisti, curiosi di ogni tipo. Una lettera di Miani, rinvenuta poco dopo, dimostrò la volontà di lasciare i “suoi” beni alla Società Geografica Italiana, che prontamente la rivendicò. Ai ragazzini furono affibbiati i nomi di Thibaut e Cher-Allah, come scritto nella lettera di lascito di Miani, e cominciò così il loro destino di fenomeni da baraccone, studiati e analizzati, giudicati e visitati da medici, trattati prima come merce da comprare e poi come merce da esibire. Successivi accordi diplomatici con l’Egitto permisero il loro sbarco in Italia, a Napoli, nel 1874 a bordo della nave Rubattino, indicati dalla stampa come “Akka” perchè così era denominata la loro etnia di origine. A Napoli furono consegnati come “omaggio” del Vicerè d’Egitto al re d’Italia, in quel momento nella Reggia di Capodimonte. La loro custodia fu successivamente affidata a Odoardo Antinori, Presidente della Società Geografica Italiana. Furono alloggiati all’Hotel Suez di Roma, dove cominciò il turbinio di conferenze nelle quali i due ragazzi venivano mostrati come prova dell’esistenza di una nuova, sconosciuta etnia, da poco scoperta dagli antropologi europei.

A Firenze arrivarono il 9 giugno, ospitati all’albergo dell’Alleanza di via Montebello, come tappa di un tour il cui programma prevedeva un soggiorno molto breve, poco più di 36 ore. Mantegazza e gli scienziati fiorentini concentrarono al massimo le loro indagini. Furono naturalmente privilegiate le misurazioni, come era prassi al tempo. Fu stabilito con calcoli approssimativi, in una misera cronaca degli eventi, che Thibaud, alto 1,15 m, doveva avere circa 12 anni, e Chair-Allah, alto 1,02 m, 9 anni circa. Mantegazza, dopo aver prese le misurazioni di alcuni indici cefalici, la circonferenza toracica e il numero di pulsazioni cardiache, nonché eseguiti calchi in gesso della mano e del piede di Thibaud, accompagnò i due ragazzi presso lo studio del fotografo Giacomo Brogi. Furono scattate le fotografie dei due Akka, due fanciulli non poco importunati dalla nostra curiosità e dalle nostre esigenze, come ebbe a scrivere Mantegazza, che aggiungeva con orgoglio patrio che l’Italia ha per la prima tra le nazioni d’Europa veduto due campioni viventi.

Si pose tuttavia un problema di non secondario rilievo. I due ragazzi erano a tutti gli effetti considerati come reperti etnografici, che tuttavia non era possibile esporre in un museo come si sarebbe fatto per gli oggetti di una collezione. Al pari di oggetti erano considerati delle rarità, ma erano vivi, e avevano bisogno di cure e assistenza. Come sappiamo, la curiosità svanisce in poco tempo, e presto i due poveri ragazzi uscirono dal palcoscenico disumano che li aveva riguardati fino allora, dimenticati e ignorati. Cosa fare dei due Akka? Furono affidati al conte Miniscalchi, che si offrì di prenderli in custodia nella sua villa sul lago di Garda, con lo scopo ufficiale di studiare la loro lingua e i loro comportamenti, in realtà finirono a essere impiegati come domestici “esotici” dal ricco conte.

Morirono giovani, Thibaut e Cher-Allah, minati dalle malattie e da un clima a cui non erano abituati, lontani dal loro paese, dal loro popolo, alla mercè di gente bianca, strappati alle loro abitudini per soddisfare la morbosità e una cattiveria politico-ideologica che gli era certamente estranea.

 

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Maria Gloria Roselli

Curatrice del Museo di Antropologia ed Etnologia dell'Università di Firenze. L'oggetto delle sue ricerche privilegia la storia delle collezioni e dei collezionisti, in modo particolare in relazione con l'Oriente. Si occupa di conservazione, riordino e valorizzazione del patrimonio fotografico storico del Museo, svolgendo ricerche su tecniche e storia dell'archivio del Museo.

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