L’Autonomia differenziata va bloccata: ne parliamo con Francesco Pallante

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“Com’è successo che una rivendicazione di parte, vocata al culto delle piccole patrie, venata da pulsioni razziste, segnata da egoismi territoriali, alimentata da avidità economica, sia divenuta una questione nazionale capace di mettere in scacco la tenuta dell’unità del Paese?”

Questa la domanda di fondo che sottende il bel libro di Francesco Pallante Spezzare l’Italia. Le regioni come minaccia all’unità del Paese, pubblicato di recente da Einaudi editore.

Con l’Autonomia differenziata, già richiesta dalle tre regioni più ricche d’Italia – Veneto, Lombardia e Emilia Romagna – una serie di competenze essenziali possono passare dallo Stato alle regioni. Una legge che mira a dividere il Paese e contrasta il principio di solidarietà, distrugge un sistema nazionale di sanità e istruzione pubblica, nega l’affermazione dei diritti sociali. In un disegno complessivo dal profilo autoritario.

E’ bene leggerlo per intero l’elenco incredibile di materie in cui si può attuare l’Autonomia differenziata: Tutela e sicurezza del lavoro; Istruzione (fatto salvo per l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con l’esclusione dell’istruzione e della formazione negli istituti scolastici professionali); Ricerca scientifica e tecnologica; Sostegno all’innovazione per i settori produttivi; Tutela della salute; Alimentazione; Ordinamento sportivo; Governo del territorio; Porti e aeroporti civili; Grandi reti di trasporto e di navigazione; Ordinamento della comunicazione; Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; Valorizzazione dei beni culturali e promozione e organizzazione di attività culturali; Valorizzazione dei beni ambientali.

Oltre a queste materie, per cui sono necessari i Lep, cioè gli standard minimi di servizio pubblico indispensabili per garantire in tutto il territorio nazionale i «diritti civili e sociali» tutelati dalla Costituzione, ce ne sono altre 9 per le quali l’iter è molto più semplice perché i Lep non sono necessari (e infatti è di oggi, 2 luglio, la notizia che il presidente del Veneto Zaia bruciando le tappe ha già chiesto l’Autonomia su tutte e nove): Organizzazione della giustizia di pace; Rapporti internazionali e con l’Ue; Commercio estero; Professioni; Protezione civile; Previdenza complementare; Coordinamento finanza pubblica e tributi; Casse di risparmio, rurali e aziende di credito regionali; Enti di credito fondiario e agrario regionali.

Abbiamo chiesto a Francesco Pallante, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Torino, gli effetti che questo provvedimento, ora approvato dai due rami del Parlamento e firmato da Mattarella, avrà su ambiti specifici della vita collettiva, nonché sul rafforzarsi dell’individualismo neoliberista.

Se regioni diverse richiedono autonomia rispetto a funzioni diverse, come potrà lo Stato gestire in modo differenziato le competenze che gli restano? Ci saranno aumenti della spesa pubblica?

Questo è uno dei punti decisivi perché andiamo incontro al rischio di una enorme complicazione burocratica dell’amministrazione statale, dal momento che lo Stato dovrà esercitare determinate funzioni solo in alcune regioni, mentre in altre le stesse funzioni verranno esercitate dalla regione con propri uffici amministrativi. Quindi ci sarà sicuramente un aumento dei costi, (lo dicono studi sia del servizio studi della Camera e del Senato sia dell’ufficio parlamentare di bilancio) in quanto verranno meno le economie di scala, e in più ci sarà una complicazione burocratica non irrilevante, che rischia di ricadere in negativo sulla qualità delle prestazioni offerte dall’amministrazione pubblica.

Nell’ambito dell’istruzione, nelle regioni che scelgono l’autonomia i docenti diventerebbero dipendenti regionali; si potrebbe creare una dipendenza nei confronti delle imprese sul territorio? Che succede ai docenti che oggi sono statali?

Oggi sono tutti dipendenti dello Stato, ma il Veneto e la Lombardia hanno già chiesto di far diventare dipendenti della regione i docenti, il personale dell’ufficio scolastico regionale, il personale tecnico amministrativo, gli ausiliari che ruotano intorno alla scuola. Cioè tutto l’intero comparto scolastico diventerebbe personale della regione. Ora è chiaro che questo ha ricadute sulla condizione di lavoro di queste persone che dovranno fare concorsi regionali e per le quali potrebbe essere complicato trasferirsi in altre regioni. Poi ci saranno conseguenze sul fatto che il personale assunto dalle regioni sarà condizionato nei programmi che verrà chiamato ad insegnare, visto che tutte e tre le regioni, compresa l l’Emilia Romagna, hanno detto che vogliono queste competenze per poter “meglio soddisfare le esigenze delle imprese”. L’idea che emerge, e che loro dichiarano senza nasconderlo in alcun modo, è proprio questa: la scuola asservita alle ragioni del sistema economico regionale. Il concetto di scuola come luogo in cui si produce pensiero critico e si formano cittadini dotati di un minimo di capacità di discernimento si perde del tutto, perché l’obiettivo di queste scuole regionali sarebbe quello di creare una scuola per i lavoratori destinati alle imprese del territorio.

Questo rischio credo che valga anche per l’autonomia della ricerca universitaria.

In teoria l’autonomia dell’Università è tutelata dalla Costituzione in maniera più forte, ma i rischi ci sono senz’altro. Già la Lombardia chiede di poter coordinare tutte le attività di tutte le Università presenti sul territorio regionale, e conseguentemente ci sarebbero ricadute anche sulla ricerca scientifica, che diventa oggetto di specifiche richieste da parte delle regioni, unitamente alla sua applicazione in campo industriale. Ad esempio si vorrebbe istituire la figura strutturata del “ricercatore di impresa” che dovrebbe lavorare in collaborazione con l’università, ma a quel punto ovviamente si piegherebbe la ricerca universitaria a quella dell’impresa che fornisce il finanziamento.

Che conseguenze pratiche ci sarebbero poi per la sanità pubblica?

Le richieste delle tre regioni sono di acquisire tutto ciò che oggi ancora fa lo Stato in campo sanitario. Sappiamo che le regioni già fanno moltissimo in questo ambito, ma vorrebbero potersi occupare di tutto quello che rimane allo Stato, e quindi potremmo avere regioni che hanno la competenza a ripensare completamente il loro sistema sanitario per come è organizzato oggi. Potrebbero non essere più organizzate in ASL per esempio, e ridefinire completamente l’organizzazione interna degli enti in cui si articolerà il servizio sanitario; poi ci sono richieste che riguardano anche l’acquisizione di tutto il personale sanitario, sia quello medico che quello infermieristico, il personale amministrativo e i tecnici di laboratorio. Inoltre, potranno volere acquisire forme di previdenza sanitaria integrativa, quindi si potrebbe tornare a sistemi paramutualistici, in cui chi lavora e paga riceve più protezione sanitaria, e poi c’è anche la partita importantissima della gestione di tutto il tariffario dei rapporti col privato, stabilendo autonomamente quanto pagarlo per le convenzioni. Infine, acquisirebbero tutto ciò che ha a che fare con l’equivalenza farmaceutica, che è una partita economica importante perché a quel punto ogni regione può stabilire ciò che è farmaco e ciò che non lo è, e quindi farlo entrare o meno nel mercato farmaceutico. Per quanto riguarda il prezzo dei farmaci continuerebbe a essere fissato dall’AIFA anche perché ci sono le competenze dell’EMA a livello europeo, però già stabilire l’equivalenza non è affatto poco. Quindi le competenze che richiedono sono davvero molto, molto rilevanti.

Nella pubblica amministrazione salterebbe la contrattazione nazionale?

Se quote importanti di personale pubblico statale diventano dipendenti della regione, per la contrattazione nazionale è la fine, perché ci vorranno contrattazioni regionali. La cosa che segnalano i sindacati come rischio è che ovviamente la forza contrattuale di lavoratori in numeri ridotti è molto più debole rispetto a quella che si ha quando si è a livello nazionale. E se le regioni dicono che vogliono l’autonomia per poter pagare di più i loro nuovi dipendenti, non c’è nessuna garanzia che questo avvenga, perché sarà una controparte comunque più debole.

Per il governo del territorio, ci sarebbero anche vincoli ambientali diversi?

Sì, assolutamente, le regioni chiedono di poter autonomamente agire in deroga alla normativa statale, sia sui vincoli urbanistici e paesaggistici, sia sui codici dell’ambiente e degli appalti. L’idea è proprio di non far valere più  le norme che ora sono fissate a livello statale. Sono moltissime le competenze su cui chiedono di agire in deroga, per fare eccezione a attuali vincoli di carattere generale. L’Emilia Romagna addirittura chiede di gestire in deroga persino le norme in campo sismico.

La frammentazione normativa e amministrativa in che modo influenzerà l’attività delle imprese?

Noi abbiamo in Italia moltissime imprese che hanno sede o attività sui più regioni, le cosiddette imprese plurilocalizzate; queste si trovano di fronte al rischio di avere normativa di indirizzo industriale, ambientale, per la gestione dei rifiuti, del lavoro, dei trasporti, del commercio con l’estero differenziata da regione a regione e quindi dovranno avere qualcuno che sia competente sulla normativa che si va differenziando in tutti questi ambiti, poi sarà complicato adattarsi alle varie normative delle regioni interessate dalle loro attività, e anche loro perderanno economie di scala. Su questo persino Confindustria – non particolarmente critica con i governi – ha assunto in audizione in Parlamento una posizione molto preoccupata, perché effettivamente per loro il rischio è che tutto questo abbia delle complicazioni organizzative rilevanti.

Cosa c’è che non va nel concetto di residuo fiscale?

Il residuo fiscale è prima di tutto un errore logico. L’idea alla base è che le regioni dovrebbero avere diritto di trattenere le imposte raccolte sul loro territorio. E se c’è un surplus tra quanto viene pagato in imposte e quanto si riceve per la spesa pubblica, allora quel qualcosa deve rimanere alla regione. Ma la verità è che non è la regione a pagare le imposte e a ricevere spesa pubblica, sono i cittadini singoli che pagano le imposte e ricevono spesa pubblica, quindi io pago le stesse imposte che paga un mio collega che insegna a Matera e che ha la mia stessa anzianità di servizio. Questo significa che la Costituzione fa pagare secondo il principio di progressività fiscale, infatti l’articolo 53 prevede che debba pagare di più anche in termini assoluti chi guadagna di più, ma questo deve andare in solidarietà di chi guadagna di meno su tutto il territorio nazionale, attraverso un sistema di solidarietà che è un dovere costituzionale. L’articolo 2 della Costituzione riguarda una solidarietà economica tra tutti i cittadini dello Stato, ma se io riduco questo discorso ai soli cittadini della regione, sto costruendo un popolo regionale, che spacca il popolo statale. In realtà questa legge è intrinsecamente secessionista e dunque è radicalmente incostituzionale, in violazione dell’articolo 2 sulla solidarietà economia, dell’articolo 3 sull’uguaglianza, dell’articolo 5 sull’unità nazionale e dell’articolo 53 sul progetto fiscale.

In che modo la riforma del titolo V del 2001 ha aperto la strada all’autonomia?

L’ha introdotta nella Costituzione, prima non c’era: ha creato ex novo l’ articolo 116, comma 3, e quindi l’ha resa possibile.

Poi la domanda di fondo, ma come può questa legge ordinaria e non costituzionale intervenire sulla Costituzione?

Secondo me per come è configurata è totalmente incostituzionale. Ci sono tanti vizi di incostituzionalità nella legge Calderoli, ma il più grave è che consente a tutte le regioni ordinarie di chiedere tutte le competenze astrattamente riconducibili all’articolo 116 comma 3: tutte quelle 23 materie che l’articolo 116 comma 3 dice possono essere oggetto di differenziazione regionaleSe tutte le regioni ordinarie ottengono tutte e 23 le materie, il risultato è che si riscrive completamente la distribuzione delle competenze tra lo Stato e le regioni sancita nella Costituzione. Così si ha una modifica della Costituzione fatta tramite una legge ordinaria, il che è radicalmente incostituzionale.

Ci sarebbe un solo modo per intendere in maniera non incostituzionale l’articolo 116 comma 3, cioè dire che le 23 materie sono una ricognizione generale di ciò che le regioni potrebbero chiedere se ci sono delle ragioni che giustificano le loro richieste. Le regioni dovrebbero chiedere una o due competenze, e dovrebbero motivarle, allora se tu hai un’esigenza e dimostri che non puoi affrontare quell’esigenza con i poteri che hai, chiedi una competenza mirata per poter far fronte a quell’esigenza, e in quel senso si potrebbe anche dire che l’autonomia differenziata non è incostituzionale. Io la toglierei del tutto come possibilità, però come minimo andrebbe interpretata così; ma se invece tu la interpreti dicendo che puoi chiedere tutto quanto, senza motivazioni, solo per incrementare il tuo potere, stai dimostrando che le regioni non sono uno strumento attraverso cui realizzare i fini della Costituzione, soprattutto il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti e tutte alla vita del paese, ma stai dimostrando che le regioni sono un fine in sé, cioè che è bene di per sé aumentare i poteri regionali, il che è un assurdo, perché potrebbe essere un bene come potrebbe essere un male, a seconda delle situazioni, e abbiamo visto che tante volte le regioni i loro poteri li hanno usati anche male.

Nel suo libro lei fa un collegamento, che trovo molto interessante, tra il pensiero neoliberista e l’ideologia regionalista. Cosa ci può dire in merito?

Secondo me il punto di contatto è in un antistatalismo che entrambi esprimono. L’ideologia neoliberista è a totale vantaggio del privato inteso come singolo soggetto, l’ideologia regionalista, pur non agendo a livello di singolo soggetto, si riferisce a un collettivo che è sempre parziale. La collettività locale non è la società intesa nella sua interezza, espressione di un interesse generale, è fatta di interessi collettivi ma sempre parziali, cioè di quel piccolo territorio contrapposto ad altri territori; quello che si perde è la dimensione dell’interesse generale e in questo secondo me c’è una sovrapposizione tra il neoliberismo e il regionalismo.

D’altro canto, se pensiamo al concetto di residuo fiscale, si può passare dalla regione alla provincia, dalla provincia al comune, dal comune al quartiere e alla fine si può arrivare al singolo, e quindi siamo di nuovo all’individualismo proprio del neoliberismo, che è un criterio distruttivo di socialità.

L’ultima domanda riguarda la raccolta firme per un referendum abrogativo, per cui stanno partendo in questi giorni comitati referendari in molte città: è l’unico strumento che lei vede per bloccare la legge Calderoli?

Secondo me questo è uno strumento che bisogna provare a usare. Non è semplice perché i tempi per la raccolta delle firme sono molto brevi, poi ci sarà la questione dell’ammissibilità del referendum da parte della Corte Costituzionale, che non è scontata, quindi delle difficoltà sul percorso ci sono, ma se si riesce a superarle, allora il voto referendario potrebbe essere molto partecipato soprattutto al sud (ma non soltanto secondo me) e potrebbe superare il quorum. Se venisse abrogata la legge Calderoli, anche se dal punto di vista giuridico questo non impedirebbe che le cose andassero avanti – proprio perché è una legge ordinaria e non costituzionale – è chiaro che dal punto di vista politico sarebbe una sconfessione talmente forte, che ho l’impressione che persino la tenuta della maggioranza a quel punto sarebbe a rischio. Si può aprire la possibilità effettivamente di trasformare questo atto in un boomerang per loro.

C’è l’altra ipotesi che le regioni facciano un ricorso alla Corte Costituzionale, visto che hanno il potere di farlo entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, quindi ci sarebbe tempo fino a prima della metà di settembre. Entrando un po’ nel tecnico, va detto che la difficoltà sta nel fatto che le regioni possono impugnare soltanto le leggi statali che ledano direttamente le loro competenze, e in questo caso non è facilissimo argomentarlo perché in fondo la legge Calderoli non dà direttamente le competenze alle regioni, ma integra la procedura prevista dalla Costituzione, e poi ogni regione dovrà raggiungere l’intesa con lo Stato e ricevere le competenze con una legge che recepisca questa intesa. Il rischio è proprio che la Corte dica che questa è una legge procedurale, che potrebbe essere incostituzionale per alcuni motivi, ma non lede direttamente le competenze regionali. Di fatto, finché le regioni interessate non ricevono le competenze richieste, la lesione per le altre regioni non c’è e quindi la Corte potrebbe dichiarare inammissibile il ricorso. Se fossi Presidente di una regione io tenterei comunque, perché in ogni caso in questo momento si devono giocare tutte le carte, però ho l’impressione che il referendum abrogativo potrebbe essere più efficace come strumento, sia pure sul piano politico. Il rischio grosso di questa situazione è che dal punto di vista strettamente giuridico gli strumenti di reazione sono spuntati, bisogna giocarsela molto sul piano politico e il successo di un referendum abrogativo darebbe grande forza.

Tra l’altro il referendum implica la partecipazione popolare per la raccolta firme, mentre il fatto che siano Presidenti di regione ad agire ha un valore completamente diverso. Anche perché poi la Corte potrebbe anche annullare singoli aspetti della legge, non la legge nel suo complesso, mentre il referendum la abrogherebbe in toto.

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Ornella De Zordo

Ornella De Zordo, già docente di letteratura inglese all'Università di Firenze, e attiva per anni nei movimenti, è stata eletta due volte in Consiglio comunale - dal 2004 al 2014 - per la lista di cittadinanza 'perUnaltracittà', portando dentro il palazzo le istanze delle realtà insorgenti e delle vertenze antiliberiste attive sul territorio. Finito il secondo mandato di consigliera di opposizione ai sindaci Domenici e Renzi, prosegue con l'attività di perUnaltracittà trasformato in Laboratorio politico, della cui rivista on line La Città invisibile è direttrice editoriale.

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