Città digitali. Dalla smart city alla dark city il passaggio è troppo facile

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Un dato fresco fresco sulla digitalizzazione del quotidiano arriva dall’ufficio studi di Uecoop:  in Italia 1 famiglia su 4 (25,3%) non dispone di un accesso Internet a banda larga in grado di supportare senza problemi massicci flussi di dati e collegamenti audio video necessari alla didattica on line. L’analisi riguarda i dati Istat in riferimento alla prossima riapertura delle scuole con la gestione delle presenze in aula dei ragazzi e delle lezioni on line. Le lezioni telematiche saranno infatti necessarie durante chiusure temporanee o quarantene episodiche e, sottolinea Uecoop, “possono integrare l’apprendimento scolastico in circostanze in cui si alterna la presenza dei ragazzi a scuola per rispettare le esigenze di allontanamento fisico nelle aule più piccole come è stato evidenziato al vertice europeo con l’OMS promosso dall’Italia sulla scolarizzazione durante la pandemia da Covid-19”.
 
Un filo rosso che ben compendia uno dei temi più importanti in tema di digitalizzazione della realtà, il processo verso cui, in modo più o meno entusiastico, ci stanno traghettando (o dicono di farlo) le nostre amministrazione pubbliche. In particolare, quella fiorentina che, nel campo specifico della vigilanza, ha gettato sul tavolo il progetto della camera di sorveglianza, senza tuttavia spiegare chi esattamente e soprattutto con quali modalità farà incetta di quelle informazioni preziosissime che si chiamano “big data” e che rappresentano il diamante grezzo da cui solo, ad ora, i giganti del web hanno le competenze e le capacità tecniche per trarne quei famosi pacchi di dati da vendere, scambiare, promettere. E dai quali provengono profitti ingenti e calcolabili solo approssimativamente.

Sulla questione, abbiamo posto qualche domanda al giornalista Andrea Daniele Signorelli, che ha più volte affrontato i temi inerenti alla digitalizzazione della realtà.  Milanese, classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile e altri. Nel 2017 ha pubblicato Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti per Informant Edizioni. E in un recente articolo, sul sito cheFare, ha posto il problema di come la smart city rischia di diventare una dark city.

Un primo punto su cui il Covid-19 ci ha costretto a riflettere ma che era già tema di dibattito prima della pandemia, è il rischio che gli strumenti digitali divengano appannaggio di alcuni a discapito dei molti, creando il noto “digital divide”, che tradurrei liberamente con “baratro digitale”, o meglio “iato digitale”. Ci potrebbe spiegare quanto e come potrebbe incidere tutto ciò sulla società?

Senza dubbio il web polarizza le differenze di classe a vari livelli. Ad esempio, le persone più alfabetizzate che solitamente provengono da contesti socio economici più elevati, hanno la possibilità di riconoscere con naturalezza fake news all’interno del mare di informazioni che giungono dal web. I ragazzi più giovani che crescono in ambienti stimolanti, dove magari la famiglia utilizza con facilità la rete, che frequentano scuole attrezzate ed accedono perciò agli strumenti digitali in modo equilibrato e competente, riescono a cogliere la positività di questi strumenti costruendo naturalmente al loro interno le difese per riconoscere e “scremare” fake news e informazioni infondate dalla loro area di conoscenza. Dall’altro lato, ci sono gli svantaggiati, che del web e degli strumenti digitali hanno conoscenze approssimative, per la maggior parte autoformate,  spesso con difficoltà di accesso e privi di qualsiasi alfabetizzazione digitale. Ecco, in questo caso pur accedendo magari con cellulari e smartphone, possono essere catturati in una sorta di buco nero, dove spadroneggiano senza nessun tipo di controllo o di capacità critica da parte degli utenti teorie complottiste condite con fake news, informazioni pseudo scientifiche, testimonianze infondate o distorte. Anche in questo senso web e digitale polarizzano le differenze di classe.

Al di là del fatto che, come emerge dagli stessi dati Istat, spesso la prima differenza di ceto è la possibilità stessa di accedere al web in modo agevole o no, qual è il rischio che si corre nell’attribuzione di competenze digitali in questo momento storico, che definirei di svolta? Non sarebbe necessario che le suddettte competenze le fornisse la scuola pubblica?

Se mi domanda se la scuola pubblica deve farsi carico di dare competenze digitali agli studenti, mi trova assolutamente d’accordo. Anche perché l’altra faccia della medaglia è inquietante. Dal momento che le competenze digitali sono sempre più necessarie in qualsiasi tipo di lavoro si voglia o ci si ritrovi a svolgere, il rischio è che siano le stesse aziende digitali private a offrire le competenze necessarie. La differenza, rispetto alla scuola pubblica, è essenziale: la scuola pubblica ha come mission l’elevazione sociale dei propri cittadini, le aziende digitali private il proprio profitto. Ciò significa che strutturalmente il loro interesse non è elevare le competenze dei lavoratori, ma dare loro quelle informazioni che servono per aumentare il profitto aziendale. E’ ciò che succede con la sharing economy, dove, ad  esempio, a un autista di Uber o a un biker viene sì data la competenza per muoversi e utilizzare determinate piattaforme digitali, ma le conoscenze passate dall’azienda sono strumentali non alla sua educazione digitale, bensì all’interesse dell’azienda stessa.

Smart city ovvero città intelligente. Come può trasformarsi in una “dark city”?

Intendiamoci su cos’è una smart city. Il funzionamento di una città “intelligente” si basa sull’utilizzo dei big data raccolti da strumenti digitali, analizzati e poi utilizzati in vari modi concreti: dai semafori autonomi, che si attivano a seconda della densità di flussi di traffico, ai cassonetti intelligenti, che fanno intervenire gli operatori ecologici quando sono pieni, agli acquedotti autoregolantisi, nell’ottica di giungere alla città “sprechi zero”. Tutto molto bello.

L’interrogativo successivo è: chi possiede gli strumenti e le competenze per analizzare i dati raccolti? Non le amministrazioni comunali, con pochi soldi èer investire in un massiccio processo di apprendimento digitale, oltre che in strumenti sofisticati e tecnici in grado di leggere le risultanze, compiere analisi, aggregare il mteriale grezzo a seconda della finalità. Ad ora, gli unici in grado di compiere questo lavoro di “dirozzamento” della materia prima (i big data) sono i colossi digitali.

Ma perché questo sarebbe un problema?

Intanto, perché sono sempre di più i servizi forniti dal Comune ai cittadini erogati da società private, che si avvalgono del digitale. Sempre di più, per accedere a questi servizi occorre la carta di credito, che rischia di divenire un vero e proprio strumento di discriminazione di classe.  Chi non ha carta di credito può accedere questi servizi? No. In compenso, il Comune che delega non avrà ritorno economico, il che andrà a incidere, ad esempio, sui servizi sociali, sul sistema dell’edilizia residenziale pubblica. In altre parole, il pubblico viene meno al suo ruolo. Inoltre, gli attori privati fanno anche raccolta dati, per poi utilizzarli ai propri fini (preferenze, gusti del consumatore, sentiment ecc.) oppure per venderli, incrementarli, ecc.

D. Ma non è possibile che questo sistema divenga di natura pubblica, e che vengano posti controlli più pregnanti di quello generico sulla privacy, facilmente aggirabile con un clic sulla voce : “accetto”?

Intanto, ad ora gli unici che sono capaci di rielaborazione, analisi e in un certo senso di “lavorare” i dati sono le società private. Quanto ai controlli sull’uso dei big data la nuova normativa europea dovrebbe essere più pregnante, mettendo in campo maggiore protezione e maggiore controllo sui processi. Tutto vero, ma quando si accettano i termini e le condizioni di utilizzo, si accettano sempre le possibilità che i nostri dati possano venire raccolti, analizzati, impacchettati e venduti. Anche quando accediamo con lo smartphone e digitiamo il noto “Accetto”. I soldi non si fanno con i costi del servizio, ma con la vendita dei dati.

Tornando al primo tema, ovvero se sia possibile che raccolta, analisi e “sfruttamento” economico dei big data possa essere fatto da soggetti d natura pubblica, ad ora direi che mi sembra improbabile. Occorrerebbe una sorta di  “espropriazione dei mezzi di produzione digitale”, in cui non c’è esproprio in senso stretto, ma basterebbe solo copiare. Di conseguenza, se un Comune si mettesse in grado di fare questo, copiando i privati, potrebbe valere il principio che, essendo un servizio pubblico svolto da un ente pubblico, è accessibile a tutti. Altro che carta di credito. Teoricamente è fattibile, ma di fatto, mi chiedo, qual è l’ente pubblico che lo metterebbe in pratica, quando i servizi già approntati dai privati sono così comodi e già usufruibili, e alla fine, molto meno dispendiosi? Infine, per quanto riguarda i big data, auspico che, facendo un parallelo per quanto molto impreciso con l’oil (il petrolio configura in sé il valore, i big data invece necessitano di analisi e lavoro per acquisirlo a secondo dell’interesse) almeno si stipulino degli accordi come fra le “sorelle” che reggono la produzione dell’oro nero.

Infine, sorveglianza, big data e digitalizzazione.

Devo dire che sono profondamente contrario alla mania della sorveglianza, quella che ha condotto ad esempio il sindaco di Firenze (che è la seconda città più “intelligente” in Italia 2019, ndr) a installare mille telecamere in città, ventilando la possibilità di mettere in campo algoritmi che riconoscono che qualcosa non si muove nel senso giusto nel senso che si sta verificando un reato. Consiglierei che, prima di mettere in campo questi strumenti di sorveglianza, se ne studino approfonditamente le controindicazioni. Secondo gli studi più recenti, una popolazione sottoposta a questa sorveglianza, non vive serena,  ha sempre nel proprio intimo la paura che anche una cosa innocua, un alterco, uno scherzo, possa diventare oggetto di perseguibilità. Insomma, una popolazione che sa di essere sempre sotto l’occhio del nuovo grande fratello, si comporterà di conseguenza, limita i propri slanci, diventa sotterranea e si guarda in continuazione alle spalle. Una situazione di questo genere non può che essere descritta  come privazione della libertà. Senza peraltro che, come ci insegna la storia della pena di morte, si possa contare su un reale potere deterrente. Allora, attenzione: il passaggio dalla smart city alla dark city è facile, scivoloso e in discesa”.

*Stefania Valbonesi

 

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Stefania Valbonesi

Nata a Ravenna, età vintage, svolge ttività giornalistica da circa vent'anni, essendo prima passata dall'aspirazione alla carriera universitaria mai concretizzatasi. Laurea in scienze politiche, conquistata nella fu gloriosa Cesare Alfieri. Ha pubblicato due noir, "Lo strano caso del barone Gravina" e "Cronaca ravennate", per i tipi di Romano editore.

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