Igor Pelgreffi Ecologia, Tecnica, Corpo: un milieu necessario

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Con il permesso dell’autore e della casa editrice Mimesis pubblichiamo il testo del suo intervento alla Winter School 2021-2022: La filosofia e la crisi ecologica, a cura di Beatrice Bonato e Raoul Kirchmayr  (2023)

1.

Propongo di seguito solamente qualche appunto, molto preliminare, per interrogare la questione di una “tecnica ecologica”; il che significa in realtà aprire una serie di domande su una questione che è sia storica sia di “punto di vista” sul problema ecologico. E cioè: può un discorso filosofico sull’ecologia includere un riferimento essenziale, non “di contorno”, alla questione della tecnica? Che relazione teorico-politica sussiste tra tecnica e natura, tra emergenza ecologica e potenza della tecnica? Che cos’è o cosa potrebbe essere, in un futuro non troppo à venir, una “tecnica ecologica”?

Partiamo dalla rilevazione del dato storico. Oggigiorno il sintagma “emergenza ecologica” è parte integrante della nostra ovvietà: inquinamento, surriscaldamento, incremento dell’insostenibilità su vari piani di vita; in parallelo: movimenti come Fridays for Future, falsa coscienza del green washing, etc. Tutto questo assieme. Ora, si è concordi nel sostenere che il progressivo depauperamento delle risorse naturali, connesso inscindibilmente a un determinato modello di produzione e/o di sviluppo, si fondi su un atteggiamento che concepisce la natura come fondo disponibile (nel senso heideggeriano), cioè come oggetto semplicemente presente, dunque inesauribile e solo da sfruttare: materia per un progresso infinito, capitalistico, tecnico. Come noto, due sono le principali posizioni nella discussione teorica attuale. Da una parte, la critica del quadro esistente non può prescindere da una sorta di integralismo ecologico, tutto spostato sul momento della natura, del vivente in quanto tale, nell’ottica di una deep ecology e del retropensiero di un ritorno alla natura incontaminata come unica via di uscita. Dall’altra, troviamo un atteggiamento nonostante tutto ancora artificialista, per il quale nell’elaborazione di una critica dell’esistente tutto è costruzione, segno, linguaggio, nell’alveo di quella deriva postmoderna di ampia parte del pensiero novecentesco, nell’alveo dunque della questione della tecnica intesa come destino (Heidegger) o come manipolazione dell’ente e tendenza fondamentale del nichilismo (Severino). Quando parlo di “tecnica ecologica”, sulla scia delle osservazioni di Manlio Iofrida, che qui seguo1, implicitamente intendo invece sostenere che nessuno dei due modelli risulta, alla prova dei “fatti”, pienamente accettabile. Non è praticabile né l’idea di un ritorno a un ideale stato pre-tecnico, né l’idea che la razionalità strumentale, cioè il capitalismo, vada criticata soltanto mediante strumenti interni, utensili “tecnici” in quest’accezione della strumentalità.

2.

Con tecnica ecologica intendo un modello di tecnica in cui al centro vi sia non una relazione di controllo (della ragione – comunque intesa – sulla natura), bensì una relazione di non-dominio o, forse, di co-dominio, cioè a dire una relazione capace di complessificarsi nel suo farsi, anziché dettare schemi e forme esterne al processo: meno alienante, più viva e “corporea”. Una tecnica quindi sempre trasformativa dei rapporti in gioco, in una reciprocità tra momento attivo e momento passivo della trasformazione del mondo, dove all’intervento attivo si combini sempre anche un lasciare essere il fondo naturale, corporeo e prerazionale (quel fondo naturale che corrisponde al concetto di fondo disponibile, tipico di Heidegger). Seguendo ancora Iofrida, la tecnica non può essere “vista come l’altro della natura, ma come sua emanazione e suo complemento”2. Il rapporto dell’uomo con lo strumento è da sempre mediato dal corpo-che-lavora e, con Merleau- Ponty, anche dal corpo-che-percepisce, entro un rapporto tecnica-natura in cui risulta centrale appunto la relazione, non la separazione. Si tratta di una tecnica più vicina a quella del bricoleur che a quella dell’ingegnere, secondo la celebre intuizione di Lévi-Strauss ne Il pensiero selvaggio3. Qualunque tecnica, cioè, contiene un elemento di

attitudine verso la natura […] caratterizzato dal fatto di presupporre l’inerenza e non la trascendenza del soggetto rispetto al suo mondo: l’attività del bricoleur implica una costante messa in relazione dell’oggetto con il proprio corpo, su cui il soggetto continuamente testa le possibilità dello strumento tecnico, per orientarsi nella sua prassi artigianale. 4

Non importa quanto avanzato tecnologicamente sia lo strumento tecnico: il suo uso dovrà comunque, in una proporzione variabile ma mai ridotta allo zero, attraversare la nostra corporeità, abitarla e, quivi, co-strutturarsi entro un momento sensibile e percettivo in cui i rapporti si re-inscrivono in nuovi assetti. Tali assetti neo-tecnici tengono conto di quelli precedenti, cioè di una storia del valore d’uso (dei vecchi strumenti, materiali, tecniche); e tutto questo si innesta nell’assetto tecnico attuale prefigurando le tecniche future. Sempre sul rapporto corpostrumento, è utile ripercorrere, con Merleau-Ponty, una tra le figure chiave del rapporto uomo-tecnica, quella dell’esperto alle prese con la preparazione del proprio strumento in vista dell’esecuzione di un programma. Come, oggigiorno, noi eseguiamo un programma? Come veniamo eseguiti, “algoritmicamente”, da programmi, da momenti della ragione strumentale, da tecniche operative sempre più sottili e pervasive? Cosa significa essere “esperti”, e quali spazi critici concreti sussistono nell’expertise? Scriveva Merleau-Ponty:

[…] un organista esperto è capace di servirsi di un organo che egli non conosce e che ha le tastiere più o meno numerose e i registri disposti diversamente rispetto a quelli del suo strumento abituale. Gli basta un’ora di lavoro per essere in grado di eseguire il suo programma. […] Diremo dunque che l’organista analizza l’organo, e cioè che si dà e conserva una rappresentazione dei registri, dei pedali, delle tastiere e della loro relazione nello spazio? Ma, durante la breve prova che precede il concerto, egli non si comporta come chi vuole tracciare un piano. Prende posto sul sedile, aziona i pedali, alza o abbassa i registri, misura lo strumento con il suo corpo, assimila le direzioni e le dimensioni, si installa nell’organo come ci si installa in una casa.5

3.

In generale, ogni operazione tecnica che si voglia relazione tra corpostrumento- soggetto che sia di tipo “ecologico”, richiede che ci si ponga contemporaneamente entro un atteggiamento di attività, di impossessamento provvisorio dell’oggetto ma, al contempo, di disponibilità a lasciarsi riconfigurare dall’oggetto, passivizzando il proprio agire, ri-soggettivandosi, a ogni giro dell’operazione di calibrazione corpo-macchina, proprio nel rapporto con esso, entro una dinamica di cui non si conosce in partenza l’esito, ma neppure l’equazione differenziale di modificazione degli stati fisici6. Vi sarebbe una relazione che è al contempo an-archica e formante, ovvero senza forma ma sempre produttrice di forma. Ciò si traduce, sul piano speculativo, in una certa mancanza di sapere, in una messa in questione dunque del concetto stesso di programma – in qualsiasi senso intendiamo tale parola – come spazio in cui prende corpo la struttura di ogni tecnica ecologica. Il corpo deve immergersi e perdersi nell’oggetto tecnico (nel senso di Simondon), per esprimere e lasciare lavorare nel mondo e nella storia quelle precarie riconfigurazioni e accoppiamenti, quel couplage con lo strumento. Quello del couplage è ovviamente un tema importante quando si parla di tecnica. Di nuovo: in questo approccio “ecologico” della tecnica, l’accoppiamento uomo-macchina esibisce una propria qualità differente rispetto a quello della pura unilateralità (indipendentemente dal verso), e cioè una qualità di mediazione dinamica e aperta nei suoi esiti. In definitiva, la tecnica ecologica si caratterizza per il mantenimento di una relazione di scambio e reversibilità con l’ambiente, e “conserva il nostro chiasma col mondo, che ha nella relazione con il nostro corpo il suo asse centrale”7.

Proprio nel ruolo del corpo, inteso come Leib, va allora ricercato il baricentro del discorso critico: il corpo vivo partecipa della natura, ma la ripete in quanto conatus; purtuttavia, entro tale conatus, il corpo ha la capacità intrinseca di divergere, di modificare schemi, procedure, “tecniche” comportamentali apprese nel tempo della vita. Altri due aspetti, connessi alla concezione della tecnica ecologica. Il primo è che essa si basa su un aspetto cooperativo della dimensione del lavoro, e non su un’autorealizzazione monadica. La dimensione inter-corporea e intersoggettiva, sulla scia di autori appunto come Merleau-Ponty, le è connaturata. Anticipiamo un altro aspetto: se è vero che l’elemento naturale riaffiora all’interno della struttura tecnica, è anche vero che in questa visione la tecnica ci restituisce, in qualche modo, un momento o una possibilità dell’essere. La tecnica è, anche qui in un senso simondoniano, una virtualità d’essere: ogni volta, in questo senso, la tecnica emergente va relativizzata, parzializzata tramite quello straordinario apparato che sono le resistenze del corpo, ossia gli attriti materiali che impediscono la sua assolutizzazione e la cancellazione dei limiti che una tecnica onnipotente naturalmente persegue.

Si noti: la dimensione antropologica è anch’essa connaturata alla tecnica ecologica, dove però il nesso tra tecnica ecologica e antropologia filosofica è da intendersi come estremamente aggiornato, dove l’antropologia è cioè quella che dialoga da sempre con la sfera della tecnicità originaria8 dell’umano se non del vivente stesso, in qualche modo aperta al proprio indebolimento strutturale come dissolvimento di ogni antropocentrismo preconcetto.

4.

Tuttavia, quello di tecnica ecologica resta un concetto sovradeterminato. Può essere utile rivolgere lo sguardo verso alcune riflessioni di filosofia della tecnica che si sono in qualche maniera avvicinate alle problematiche in oggetto. È interessante notare, per esempio, come in Simondon esista un’attenzione allo strano rapporto tra techne e physis, a quella particolare tensione che vincola entrambe a esistere nel rapporto reciproco: “siamo degli esseri naturali che hanno dei debiti nei confronti della techne per pagare la physis che è in noi: il germe di physis che è in noi deve dilatarsi in techne attorno a noi”9. Inoltre, la figura chiave simondoniana per cogliere il momento del differimento nella ripetizione, cioè il concetto di individuazione – sia in Sulla tecnica, forse ancora più che in Du mode d’existence des objets techniques –, può darsi indifferentemente nella tecnica o nella natura. Punto essenziale, se si aggiunge poi che il milieu, ossia la media- 94 La filosofia e la crisi ecologica zione ambientale in cui lo scambio natura/tecnica accade, ha a che fare con il corpo, spesso nell’accezione del Leib merleau-pontiana. Del resto, che tra tecnica e natura vi sia una relazione reciproca era già stato pensato in altre esperienze dell’epistemologia filosofica francese, come in Canguilhem, che fu maestro di Simondon il quale, del resto, ebbe tra i suoi ispiratori anche Merleau-Ponty. Tale questione riverbera poi in molti momenti del pensiero francese. Si prenda solo l’idea di tecnica, in Derrida, che in un bel testo su Nietzsche sottolineava appunto come tra tecnica e natura non vi sia opposizione, bensì contaminazione originaria:

la relazione fra physis e tecnica non è un’opposizione; sin dall’origine vi è strumentalizzazione [instrumentalisation]. Il termine “strumento” è inappropriato nel contesto della tecnicità originaria. Comunque una strategia protesica di ripetizione abita il movimento stesso della vita: la vita è un processo di autosostituzione, il trapassare della vita è una mechanike, una forma di tecnica. Non soltanto, allora, la tecnica non è in opposizione alla vita, ma essa la infesta [hante] dal suo primo inizio.10

Ciò detto, in Simondon sussistono percorsi molto più specifici, come quelli che integrano quanto appena visto con gli aspetti sociali dell’oggetto tecnico. Si pensi al concetto di milieu, declinabile anche come campo specifico in cui si articola la relazione tra techne e physis. Per Simondon, è nel milieu fisico-tecnico che si combinano tanto l’elemento della corporeità quanto l’elemento sociale: in particolare, la corporeità è sempre pre-sociale, intenzionata socialmente tramite le dinamiche tecniche; a sua volta, l’elemento sociale si manifesta soltanto nella propria innervazione alla dimensione biologico-corporea in cui “prende corpo” il dispositivo di ripetizione eterodiretto. Dunque, se l’oggetto tecnico in Simondon tende a una propria indipendenza, esso non raggiunge mai una totale alienazione dal corpo, restando sempre un oggetto relazionale, a suo modo “ecologico” o, nei nostri termini, “tecnico-ecologico”. Anche in altri luoghi, come nella trattazione della relazione sovradeterminata tra individuo e individuazione, in L’individuazione psichica e collettiva, si ha più di un indizio della necessità di pensare tale configurazione instabile a partire dal valore della coppia individuo-ambiente. Si noti: ancora un couplage. Quel che conta, è la qualità filosofica di tale relazione: Simondon ricorre a concetti come “percezione” e “partecipazione”. Percezione indica la funzione pre-individuale che costantemente riconnette – all’interno della dimensione tecnica – l’individuo all’ambiente, o all’essere, come talvolta dice Simondon. Partecipazione è intesa come momento dell’affettività, del corpo, della “risonanza interna” dell’essere rispetto a se stesso, anch’essa figura tipica della concezione della techne simondoniana. Sono concetti che mostrano bene la discendenza merleau-pontiana di Simondon, così come, d’altra parte, per la figura dell’accoppiamento (couplage) corpo-strumento.

Non va dimenticato che in quest’originale concezione della tecnica di tipo relazionale persiste comunque un elemento non pacificante, tensionale, che garantisce che il rapporto tecnica/natura non si atrofizzi mai nell’uno o nell’altro dei due poli: “l’individuazione deve essere tenuta quindi per una risoluzione parziale e relativa, che si manifesta in un sistema che contiene potenziali e presenta una certa incompatibilità rispetto a se stesso: un’incompatibilità consistente in forze di tensione”.11

In Simondon emerge, quindi, una visione della relazione (corpo-macchina, natura-tecnica) che è agonistica e sempre parzializzante, dettata da equilibri solo metastabili e mai decisa. Una relazione che ha sempre a che vedere – anche – con l’essere, e più esattamente con quanto poi Simondon designa con l’espressione essere tecnico. Anche qui, solo un accenno: è estremamente rilevante la dimensione eterogenea e non riconciliante della relazione ecologica (o tecnica, a questo punto), in quanto ogni assunzione di una forma tecnica comporta una forma di resistenza del corpo: resistenza spontanea, a sua volta automatica, cioè una forma di automatismo che si installa contro e grazie a un altro automatismo. Tale dinamica viene espressa da Simondon, per esempio, nel tema dell’operazione tecnica come sforzo, precisamente nell’accezione di “sforzo tecnico”12 nel senso in cui, come ricorda Ubaldo Fadini, “si realizza un rapporto con il mondo che vede il gesto umano creatore concretizzarsi nell’oggetto tecnico e così “perpetuarsi” nell’essere”13. Ma che cos’è lo sforzo tecnico? Esso non è la tecnica, non ancora per lo meno; esso è l’istituirsi e la persistenza di un elemento relativamente non tecnico (cioè, in qualche modo, la resistenza all’oggetto) internamente alle progressioni tecniche.

Lo sforzo tecnico va concepito come qualche cosa di ambiguamente essenziale alla tecnica: vero non è il contrario, cioè l’idea di una tecnica come struttura pura del mondo, come Gestell, secondo il pensiero dominante, innervato a una retorica del “toglimento” di ogni attrito, resistenza o disturbo, come propulsore di ogni programma tecnico… Parlare di sforzo tecnico equivale cioè a parlare dell’istituirsi, per così dire, dell’elemento corporeo in quel che poi sarà, per Simondon, l’essere tecnico, stimolando ogni volta, a ogni giro di vite della ragione strumentale, una dimensione della tecnica (in fondo “resistente”) di tipo co-operante e inter-corporeo: “l’essere tecnico mediatizza lo sforzo umano, conferendogli una autonomia che la comunità non conferisce al lavoro. L’essere tecnico è aperto alla partecipazione […] è aperto a ogni gesto umano che lo utilizzi o lo ricrei, si inserisce in un afflato di comunicazione universale”.14

5.

Corpo e tecnica, dunque. In fondo, ciò che fa problema, rispetto all’autonomia presunta della tecnica, è sempre il corpo e, di riflesso, la sua autonomia. Incorporazione della tecnica cosa significa? L’esempio dell’organista in Merleau-Ponty ci può suggerire molto circa il senso dell’incorporazione di una tecnica e dei suoi aspetti ecologici. Non ultimo il fatto che, di ritorno e come rischio specifico di questa tipologia di approccio tecnico, l’aspetto automatico-meccanico cui questi si espone, comunque e nonostante tutto, nella sua performatività di artista: una volta accordatosi, nel gioco di negoziazioni, sforzi tecnici e resistenze con/dentro lo strumento, comincia a girare il programma tecnico connaturato allo strumento, l’uso dello strumento per uno scopo, cioè l’esecuzione di una serie di istruzioni già scritte, pre-ordinate, decise da altri o altrove (è il tema dell’eterodirezione di francofortese memoria, se vogliamo). La tecnica contiene, nella sua possibilità, anche quella del suo rischio “epocale”, cioè del suo essere un dispositivo di eterna auto-replicazione, di auto-posizione infinita (qui avrebbe forse ragione Heidegger a evidenziarne il carattere destinale e inumano). La tecnica trasporta sempre, cioè, una propria automaticità: è “sé stessa” in quanto è ripetizione. In ciò, essa riproduce, replica, ripete “sé stessa” in un meta-movimento a sua volta automatico. Diviene allora importante lo sguardo che costruiremo, come individui ma soprattutto come società, sulla tecnica e sul corpo. Ma ciò nella consapevolezza che tra corporeità e tecnicità vi è – e verosimilmente vi sarà, in futuro – una sorta di coappartenenza dinamica, sovradeterminata, tendenzialmente instabile.

Il tema diviene quindi: che ruolo gioca materialmente e storicamente il corpo, in questo livello specifico, intra-tecnico del discorso? Come può concretamente inter-agire con il dispositivo logico-epocale della techne. Apparentemente lo spazio per il corpo sembra minimo, soltanto immaginario: immagine fossile di una figura di autoconsolazione in un mondo totalmente amministrato. Ed è esattamente in questa zona ambigua, di difficoltà di rapporti tra natura e tecnica, che possiamo intravedere il senso di quello spostamento di paradigma legato all’ipotesi di una tecnica ecologica.

Per comprendere come i rapporti tra la tecnica e il corpo possano essere posti diversamente bisogna chiedersi: che cosa accade quando la tecnica viene incorporata? Che accade, cioè, durante (non prima, o dopo) la fase in cui il dispositivo automatico di ripetizione, antropotecnicamente inteso, incontra i corpi? Nonostante la strapotenza della tecnica, nonostante l’epocalità e l’irreversibilità dei processi a essa collegati, accade un fatto assolutamente centrale: qualcosa non va a buon fine nell’incorporazione. Qualcosa resiste, fa attrito, cortocircuita, “fa controsenso”, nel processo di embodiment della tecnica nel corpo. Forse ce ne si dimentica – certo non per caso –, ma questo livello di insuccesso, di inefficacia minimale, di resistenza nei confronti dell’assimilazione di nuovi automatismi, è la leva corporea dell’intero processo. In altri termini, e a discapito di una visione ideologicamente orientata, idealisticamente pronta a riconoscere ovunque, anche nei passi falsi, una direzione progressiva, comunque intesa, della tecnicizzazione pervasiva del mondo, permane, ostinatamente resistente, un elemento di fallimento e fragilità in questa stessa operazione di totale amministrazione. Qualcosa dunque “va storto”, è sempre “andato storto”, nell’acquisizione di una tecnica da parte del corpo, e solamente una visione ingenua può farci pensare che il corpo assorba una nuova tecnica in modo trasparente, e che – mantra epocale – il residuo extra-tecnico della tecnicizzazione verrà in seguito sistemato, ridotto, eliminato: che sia un errore trascurabile, effetto collaterale secondario rispetto a una razionalità global-strumentale-algoritmica che, infine, farà funzionare quella tecnica nel corpo e nei corpi.

6.

Nel momento-spazio dell’incorporazione di una nuova tecnica nel corpo, accade quindi che il corpo resiste. La resistenza verrà poi conservata, deviata ma non annullata, e costituisce una sorta di “riserva energetica interna”, cioè natural-corporea, spesso anche socialmente inconscia, cui il futuro gesto di dissenso potrà attingere. Con uno slogan: dentro la tecnica contro la tecnica, in qualche modo, rilanciando le armoniche del concetto di sforzo tecnico. Ripetiamolo: sul piano empirico dell’incorporazione, si 98 La filosofia e la crisi ecologica verifica ora (ma si riproporrà anche in futuro), un attrito. Detto diversamente: nel processo di introiezione di una tecnica, nel tempo e nello spazio dell’innervamento del “nuovo” schema, si sviluppano delle resistenze: delle “contro-tecniche naturali”. E queste hanno per elemento ancora la tecnica, precisamente le tecniche già acquisite, ma al contempo vanno a complicare e scompaginare il quadro assimilativo.

In termini simondoniani, nella rilettura datane per esempio da Deleuze in Gilbert Simondon15, potremmo dire che questo campo vitale, in cui si innervano tra loro la ripetizione del “vecchio” schema (schema corporeo, ma anche schema sociale, schema politico, in fondo…) e la resistenza all’installazione (concetto che, come accennato, sconfina in quello heideggeriano di Gestell) del “nuovo” schema tecnico, comporta qualche cosa che ha a che vedere con una “disparità”, una irregolarità o una différance, che si potrebbe designare come una “disparazione”, concetto quest’ultimo importante nell’ottica di Simondon circa la relazione tra natura e tecnica nel suo primo determinarsi all’interno dell’“essere pre-individuale”. Che cosa accade, precisamente, in questa fase intermedia, mediale, di milieu? Accade, ripetiamolo di nuovo, che l’alterità del corpo riemerge. Il Leib rientra in campo: si riprende, silenziosamente, la scena, e lo fa tramite una certa sua potenza di contrasto interna al processo in corso. Il corpo, in quanto Leib, manifesta una propria “naturalità resistente” interna al conatus in cui, d’altra parte, già si trova ad agire. Questo tipo di sovradeterminazione, questo quadro teorico instabile, espresso nel termine “disparazione”, è il centro logico del nostro problema, cioè del problema di come immaginare un senso per la diade ecologica-tecnica. La qualità di quest’alterità interna è ciò che ci è più prossimo, cioè è la sua natura, la sua physis, che non è nulla di pacificamente sostanziale, nulla che potrà mai davvero e definitivamente stare sul fondo (come fondo disponibile), ma che è invece una natura dinamica, intrinsecamente eterogenea alla sua stessa forma presupposta stabile. Volendo ricorrere a una formula sintetizzatrice: il corpo è e ha una natura resistente. Questa circostanza, equivalente a considerare il corpo come perno logico di una qualsiasi “ecologia critica”, comporta ancora, su un piano teorico, ma anche politico, il fatto che il mio corpo si disponga a ripetere, cioè si adegui, si svilisca, si adatti; ma, al contempo, che il mio corpo non si adatti mai. Questa dinamica tra sì e no, tra “funzionare bene” da un lato e, dall’altro, rallentare le funzioni automatiche indotte, è precisamente l’origine di ogni futuro dissenso. Da un lato e dall’altro: in realtà, due lati della medesima realtà fisica: il corpo.

La relazione tra corporeità e tecnica non è, insomma, già decisa/destinata una volta per tutte, in direzione del trionfo della tecnica (e, per converso, della necessità di una certa declinazione del discorso ecologico come discorso semplicemente oppositivo a quello tecnico, come opzione dialettico- negante, come alternativa “assoluta” e intransitiva alla tecnica). Si tratta piuttosto di una relazione di reciprocità agonistica, non decisa, nella quale in determinate fasi è anzi la natura corporea a limitare e ri-strutturare la potenza della tecnica (tramite quella contro-potenza strutturante che il corpo vivo è ed esprime). Il corpo ri-forma lo schema tecnico che si va installando in esso: la corporeità, umana ma anche animale in genere, nella sua dimensione relazionale, aperta e inter-corporea (prima ancora che intersoggettiva), arricchisce di nuove forme, impreviste dallo schema, lo “schema tecnico del mondo”. In conclusione, sarebbe un errore – se ci interessa sviluppare un discorso critico sulla tecnica in chiave “ecologica” – concentrarsi unicamente sulle tecniche già date (apprese o, anche, storicamente determinate), limitandosi a una loro analisi filosofica, concependole volens nolens come oggetto. Occorre guardare non al datum ma al processo di acquisizione delle “nuove” tecniche, dei “nuovi” patterns e/o automatismi, delle “nuove” forme di ripetizione. Solamente nel processo si possono individuare lo spazio e il tempo per una variazione autoindotta della tecnica che si voglia minimamente concreta, cioè non solo immaginaria, dove per processo si intende precisamente quel breve ma decisivo campo intermedio in cui “vecchie” tecniche agiscono in noi e “nuove” tecniche ancora non esistono. Il corpo rappresenta questa mediazione, questo milieu tra ecologia e tecnica, tra natura e ripetizione automatica, così come tra l’effetto del subire e quello del divergere, del ripetere diversamente: del dis-sentire.

Le immagini sono delle imitazioni del Codex Seraphinianus di Luigi Serafini generate da Midjourney su indicazioni testuali di Gilberto Pierazzuoli

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1 Cfr. M. Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata 2019.

2 Ivi, p. 61.

3 C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962), tr. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 2015.

4 M. Iofrida, Per un paradigma del corpo, cit., pp. 62-63.

5 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 200-201

6 Da questo punto di vista, ci pare importante collegare quanto si sostiene nel presente articolo con le recenti prospettive di ricerca aperte da Sarti sul tema dell’eterogenesi differenziale (cfr. A. Sarti, G. Citti, D. Piotrowski, Differential Heterogenesis and the Emergence of Semiotic Function, “Semiotica”, 230, 2019, 1-34; A. Sarti, I. Pelgreffi, L’hétérogènese différentielle. Formes en devenir entre mathématiques, philosophie et politique, “Multitudes”, 78 (1), 2020, 154-163).

7 M. Iofrida, Per un paradigma del corpo, cit., p. 67.

8 Vanno evocati i lavori di Ubaldo Fadini sulle soggettività contemporanee legate per esempio, ma non solo, alla dimensione cyborg (cfr. U. Fadini, Soggetti a rischio. Fenomenologie del contemporaneo, Città Aperta, Troina 2004 e Id., La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete, Dedalo, Bari 2009), intesa in generale anche nelle sue coordinate più ricche, aperte al campo degli affetti e dunque della corporeità, così come all’antropologia filosofica tedesca di Gehlen, Anders, sino a un interessante confronto critico da un lato con il pensiero francofortese e dall’altro con quello di Deleuze; così come i più recenti sviluppi del lavoro di Haraway, cioè la sensibile evoluzione che si avverte passando da Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1985), tr. it. di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995, alle ultime tendenze “ecologiche” in Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto (2016), tr. it. di C. Durastanti, C. Ciccioni, Nero, Roma 2019.

9 G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva (1964), tr. it. di P. Virno, DeriveApprodi 2001, Roma p. 10.

10 J. Derrida, Nietzsche e la macchina (1994), tr. it. di I. Pelgreffi, Mimesis, Milano-

Udine 2010, p. 63

11 G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, cit., p. 27, corsivo nostro.

12 Ivi, p. 207.

13 U. Fadini, La vita eccentrica, cit., pp. 113-114

14 G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, cit., pp. 207-208, corsivo nostro

15 G. Deleuze, Gilbert Simondon. L’individuo e la sua genesi fisico-biologica, in Id., L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974 (2002), tr. it. di D. Borca, Einaudi, Torino 2007, pp. 106-111

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