La “lezione” di Raffaele Oriani: un’intervista

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Sabato 8 febbraio Raffaele Oriani è stato ospite di Firenze per la Palestina all’Unione operaia di Colonnata, a Sesto Fiorentino.

Nel gennaio ‘24, a tre mesi dall’attacco israeliano a Gaza, Oriani decide di interrompere la sua collaborazione con Repubblica, e invia una lettera privata ai colleghi in cui motiva la sua scelta: “chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15) […] Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie[…]. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori”.

Qualche mese dopo ha pubblicato per People Gaza, la scorta mediatica. Come la grande stampa ha accompagnato il massacro e perché me ne sono chiamato fuoriL’espressione “scorta mediatica” fa riferimento alla protezione che media e società civile hanno offerto a giornalisti e attivisti antimafia minacciati, diffondendo la loro storia e il loro lavoro, rendendo così sconveniente per la mafia farli fuori. Oggi la scorta mediatica è un’altra, non è più a protezione di onesti e coraggiosi giornalisti, ma copre e normalizza la più grande ingiustizia del nostro tempo: il genocidio dei palestinesi.

A oltre un anno di distanza Oriani racconta così la sua scelta, come un gesto inevitabile per chiunque sappia vedere quello che ha davanti agli occhi: “nel momento in cui si capisce che non c’è una guerra ma c’è uno sterminio, c’è un salto di qualità nelle cose a cui deve corrispondere un salto di qualità nel comportamento personale. Sulla questione israelo-palestinese siamo abituati ai doppi standard dei media, ma qua si andava al di là; si parteggiava per gli sterminatori contro gli sterminati, ed io ho avuto la netta sensazione di far parte di un dispositivo che lanciava le bombe, e permetteva che si continuasse a lanciarle”.

La riflessione è sul ruolo ed il potere che la stampa ha nel determinare la direzione che la storia può prendere, influenzare le scelte della politica e la reazione dell’opinione pubblica: noi stampa libera dell’Occidente abbiamo in mano l’interruttore per fermare e mitigare i massacri. E non lo stiamo usando”, dice nel suo libro.

La descrizione degli avvenimenti che Oriani offre è particolarmente interessante, perché unisce sensibilità umana e competenza sui meccanismi mediatici di manipolazione, “I palestinesi in questi 15 mesi non sono morti a battaglioni, come in una guerra, sono morti a famiglie, e queste cose invece di spiccare giorno dopo giorno nel loro orrore, sono state inserite nel flusso informativo. Da parte dell’informazione mainstream c’è stato un certosino lavoro di normalizzazione, quasi burocratizzazione dell’orrore. Famiglie intere, decine di bambini sterminati finiscono nel rullo impersonale delle ‘brevi di cronaca’, 15 mesi sono passati senza che su Corriere o Repubblica comparisse un solo editoriale, commento, rubrica, non dico di condanna di Israele, ma almeno di una delle modalità dello sterminio, in cui si dicesse: gli ospedali vanno tutelati, i nostri colleghi giornalisti vanno tutelati. Niente, non una riga. L’effetto concreto: evitare che si creasse una reazione pubblica e politica. Nonostante l’interesse del pubblico, il tema è stato trattato come un evento naturale, come un terremoto, su cui si poteva non avere nessuna opinione.”

A un anno dalla sua presa di posizione, come valuta il fatto che il suo gesto sia rimasto isolato? All’estero è molto più comune che giornalisti denuncino le pressioni che ricevono per offrire la versione israeliana.

Da noi c’è stato poco in effetti, ci sono colleghi che fanno un buon lavoro, ma tutto viene relegato in posizioni marginali. Il problema è l’impostazione: i titoli, la gerarchia delle notizie. Fino nei dettagli minori viene sempre favorita una narrazione rispetto ad un’altra, basta vedere come si è raccontato il recente scambio di ostaggi. Non si è sentita nelle redazioni la straordinaria drammaticità del momento, il fatto che un paese nostro alleato sta compiendo uno sterminio, non si è capito che è il nostro mondo che torna lì dov’era 100-150 anni fa, alle pratiche genocidarie che erano comuni allora, basti pensare alle guerre coloniali in Africa. Non si è capito che questa è una ricaduta in un male che ci appartiene.

Le grandi firme, che non rispondono a nessuno, non hanno scuse. Non hanno solo fatto l’apologia della guerra, ma del crimine di guerra, come connaturato all’esperienza storica dell’Occidente, e che ha piena cittadinanza anche quando lo compie Israele. Un tracollo etico e deontologico. Ma ciò che è mancato di più sono i collettivi di giornalisti, una categoria che avrebbe dovuto imporre dei paletti: un ospedale non è un campo di battaglia, ad esempio.

A ridosso del 25 aprile scorso ci sono state pagine e pagine di polemica sulla censura ad Antonio Scurati sulla Rai, intanto a Gaza si scoprivano fosse comuni con centinaia di corpi; bambini, medici, pazienti, persone sepolte vive. Nulla, non una parola, non un commento, allora io dico: come si fa a parlare di antifascismo se quando il fascismo ce l’hai davanti ti giri dall’altra parte?”

A proposito della responsabilità delle grandi firme, come valuti il cambiamento nel linguaggio di questi giorni? Con l’avvento di Trump un linguaggio più violento è stato sdoganato, anche Molinari nel suo ultimo editoriale commenta il piano criminale di pulizia etnica come un’idea moderna e intrigante, dovuta ad uno stile di pensiero “out of the box”, fuori dagli schemi.

Quell’editoriale di Molinari fa paura, come molte delle cose che ha scritto. Normalmente mi astengo da giudizi politici, ma in questo caso credo che forse per Israele non sia un buon investimento appoggiarsi a Trump. Con la sua schietta brutalità fa capire qual è la posta in gioco, verso quale sistema stiamo andando: per tollerare e permettere tanto orrore, tanta violenza, e così a lungo, è necessario un sistema diverso dalla democraziaIo mi auguro che proprio l’irruzione di Trump possa fare riflettere molti liberali in Occidente. Tutto è portato ad un livello di chiarezza che prima era stato mimetizzato, e spero che questo porti ad una reazione anche da parte di ambienti che finora sono stati molto accomodanti.”

Noi attivisti e militanti per la Palestina siamo stati spesso criminalizzati con l’accusa di antisemitismo, come giudichi questo fatto?

L’unica narrazione fatta in questi mesi è stata fatta su chi protestava contro lo sterminio, un reticolo di allarmi sociali è stato creato attorno a chi protestava, laddove lo sterminio stesso non destava nessun allarme. E’ stato uno spettacolo indecente, anche perché, mentre il nostro ebraismo ufficiale in Italia è stato compatto e schierato con Israele, in tutto il mondo ci sono milioni di ebrei che vedono le cose per come sono. La stampa ha fatto di tutto per presentare gli ebrei come schierati tutti insieme con le bombe, mentre appena un ebreo si esprimeva senza esitazione contro lo sterminio spariva totalmente. Edgar Morin, 104 anni, che ha espresso in ogni modo l’orrore per quello che avviene a Gaza, è sparito dalle pagine di Repubblica, che frequentava abitualmente. Lo stesso vale per Naomi Klein, ebrea canadese, che ha tenuto un importantissimo discorso alla Columbia che i nostro giornali si sono guardati bene dal riportare. L’obiettivo dei nostri media era dipingere gli ebrei da una parte, con le bombe, e tutti quanti dall’altra. Questa cosa ha fatto e farà dei danni enormi.

Ma mi chiedo a questo punto: se l’obiettivo fosse stato veramente opporsi al rischio di un nuovo antisemitismo, non sarebbe stato il caso ad esempio di raccontare la storia di Mark Perlmutter, medico ebreo americano che, tornato da Gaza, ha raccontato di centinaia di bambini che arrivavano in sala operatoria con precisissimi fori di proiettile in fronte e nel petto? Del suo racconto da noi non è uscita una riga, e questa è una enorme responsabilità che si sono assunti, nascondere il racconto di un medico ebreo che raccontava la deliberata volontà di ammazzare bambini da parte dell’esercito israeliano. Questo non sarebbe stato utile contro l’antisemitismo?”

Questo genocidio si basa, come gli altri, sul descrivere le vittime come subumani. Ma come spieghi che neanche nei confronti dei colleghi sia scattata la solidarietà dei giornalisti italiani?

I giornalisti uccisi non sono mai stati un tema. Sul Corriere della sera si è addirittura detto che in molti casi non erano da proteggere perché appartenenti a media vicini ad Hamas, oppure che non andavano conteggiati tra i giornalisti ammazzati perché erano stati colpiti mentre erano in casa, fingendo di non sapere che la strategia era proprio colpirli insieme a tutta la famiglia, per mandare un chiaro messaggio in stile mafioso. La solidarietà è mancata del tutto, perché una volta inquadrata la narrazione con: da una parte c’è l’umanità e dall’altra ci sono i mostri, in questi mostri si sono compresi anche i colleghi. I palestinesi sono stati completamente deumanizzati, e se non sono esseri umani perché sono palestinesi, allora neanche i giornalisti stessi sono più giornalisti, sono solo palestinesi.”

In un momento storico in cui il popolo palestinese è minacciato come forse mai lo è stato nella sua stessa esistenza sulla sua terra, tra il silenzio e la complicità del nostro sistema politico, mediatico, culturale, è fondamentale continuare a parlarne, cercare di sensibilizzare e mobilitare le persone, informandole e comunicando.

Ciò che abbiamo apprezzato dell’incontro con Raffaele Oriani è il modo totalmente privo di retorica in cui racconta il proprio gesto, e questo deve essere d’esempio per chiunque. Colpisce il suo non atteggiarsi ad eroe, ma il descrivere la propria scelta come naturale, come l’inevitabile conseguenza di chi prende sul serio valori che in teoria dovrebbero essere fondanti per la nostra società: libertà, giustizia, solidarietà.

Ognuno nel proprio ambiente ha la responsabilità di fare la sua parte perché i valori che si professa trovino poi una concreta applicazione. E Oriani, che non è mai stato un militante, ma come si definisce lui “una persona normalissima”, dà una vera e propria lezione.

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Simone Sorani

Simone Sorani, nato a Firenze nel 1981, laureato in Filosofia, lavoro come cuoco. Attivo nel collettivo di Firenze per la Palestina.

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