Parliamo di carcere con Claudio Pedron, insegnante di Lingua Italiana, referente per il CPIA1 Firenze per il Ministero dell’Istruzione, all’interno del carcere di Sollicciano. In questo primo incontro Pedron parla della situazione della scuola in carcere, in una prossima intervista affronterà le tematiche relative alle possibili ricadute di un percorso culturale sulla condizione detentiva.
Pedron insegna in carcere dal 1992, prima in quello di Volterra e dal ’99 a Sollicciano. Sono due mondi molto diversi, racconta: “il carcere di Volterra era con 100 persone quando sono arrivato io nel 92 e, anche se non era ancora il carcere che è adesso, c’era già la transizione da un carcere di massima sicurezza a uno che adesso è molto aperto alle attività”. Nel 1998 Pedron scelse di lavorare nel carcere fiorentino, una realtà che al tempo ospitava oltre 1000 persone e una forte presenza di migranti. Anche qui, per quanto riguarda la scuola, trovò una situazione di transizione, e c’è voluto un po’ di tempo per arrivare ad avere la completezza dell’orario scolastico, mattina e pomeriggio. Oltre ai corsi di alfabetizzazione, adsso c’è la scuola media con CPIA1, la scuola superiore con l’Istituto Russel Newton e l’alberghiero Aurelio Saffi. Qualche detenuto si è iscritto all’università con il Polo carcerario dell’ateneo di Firenze. Il CPIA1 Firenze è attivo anche al carcere Gozzini, che ospita un’ottantina di detenuti, con programmi di alfabetizzazione e di scuola media; l’istituto agrario assicura la scuola superiore. Al carcere minorile, che attualmente ospita una ventina di detenuti, dal momento che con le nuove leggi sono aumentati gli arresti fra i minori, il CPIA1 Firenze ha attivato un corso di alfabetizzazione, una sorta di biennio e alcuni corsi educativi, in quanto i numeri degli alunni sono troppo bassi per istituire la scuola.
“Quando sono arrivato a Sollicciano”, racconta Pedron, “c’era un sovraffolamento con punte di 1100 detenuti, a fronte di una capienza di circa 500. Inoltre all’epoca i detenuti erano chiusi in cella per gran parte del giorno, quindi la partecipazione alla scuola era molto grande, molti venivano anche solo per uscire dalla cella e avere momenti di socializzazione. Col tempo molte cose sono cambiate, a cominciare dal rapporto degli agenti con i nostri allievi. La condanna dell’Europa ha portato a dimezzare il numero dei detenuti presenti, attualmente 540 circa. La struttura è rimasta la stessa, e anche le problematiche sono più o meno sempre le stesse. È stato costruito il Giardino degli Incontri che non c’era quando sono arrivato, ed è una bellissima cosa che serve agli incontri coi familiari e che ogni tanto viene usato anche per altre attività. Da quando sono coordinatore, continuando il lavoro fatto al tempo coi colleghi di allora, insieme ai compagni di lavoro abbiamo incrementato moltissimo i rapporti con l’esterno, ad esempio con i musei con i quali c’era un rapporto saltuario ed è ora diventato permanente, con l’Opera del Duomo, Palazzo Strozzi e con la rete Welcome e i musei ad esso collegati. Abbiamo attivato rapporti con Amnesty International, e Sollicciano è stato il primo carcere dove sono entrati, non per controllare ma per parlare di diritti e, vista la composizione di detenuti stranieri, che si aggira sul 70%, per discutere di cosa succedeva nei paesi di origine.”
Chiedo a Pedron come funziona l’attività della scuola in carcere e mi risponde che in alcuni periodi partecipa qualche italiano, e ogni tanto qualche italiano che non sa scrivere e che quindi deve fare il percorso di alfabetizzazione, altrimenti la composizione è per il 90-95% di stranieri che frequentano la scuola perché la cosa importante per loro è acquisire la conoscenza di quella quantità minima di parole che gli permetta di sopravvivere. Nella pratica l’iscrizione alla scuola avviene dopo la presentazione di una cosiddetta domandina (perché è in formato A5) all’interno del carcere, segue un colloquio dove gli operatori scolastici valutano il livello da pre-A1 a B1 oppure scuola media o scuola superiore. Oltre che tramite la domanda, alcuni detenuti partecipano in quanto segnalati dagli educatori, gli FGP, funzionari giuridico-pedagogici, perché ad esempio non sanno la lingua, o ancora perché segnalati da psicologi o da psichiatri in quanto necessitano di un percorso di socializzazione, e la scuola è effettivamente il primo punto dove socializzare.
Pedron fornisce anche i numeri degli iscritti, dato utile per tentare una visione delle condizioni di detenzione filtrata dall’osservatorio della scuola. “Fra tutti ci sono 140 iscritti ma ogni giorno non scendono 140 persone, ne scende la metà o poco più, perché tanti di loro sono impegnati a lavorare e normalmente preferiscono il lavoro alla scuola. Il lavoro è a turno di un mese quindi accade che dopo la fine del turno mensile tornino a scuola e noi garantiamo la continuità per ognuno. Inoltre vanno considerati quelli che escono dal carcere, o chi rinuncia, chi ha problemi con l’esterno, con la famiglia e finisce in depressione e dobbiamo andare a cercarli e recuperarli, chiedere aiuto agli psicologi o agli FGP, però è chiaro che se 140 vengono a scuola, e sto parlando anche del femminile, dove ci sono attualmente una sessantina di detenute, ci sono altre 350 persone che stanno in sezione e fanno la vita classica del carcere. Alcuni di loro lavorano in maniera continuativa. I lavori sono quelli utili alla sussistenza del carcere, come addetti alle pulizie, il fabbro o l’elettricista per aggiustare i guasti, i cuochi o i portavitto. Tutti pensano che nel carcere, come si vede nei film, ci sia la mensa, le divise, invece niente di tutto questo. Le celle fortunatamente sono aperte per tutta la giornata in quasi tutte le sezioni, vengono chiuse solo per dormire, tanto che il Ministero chiede che siano definite camere di pernottamento. In questo modo c’è movimento dentro la sezione ed è favorita la partecipazione alle attività. Ultimamente ci sono stati alcuni casi di suicidi, che denunciano forti stati di malessere. In modo del tutto paradossale, nel periodo in cui c’erano oltre 1000 persone, c’erano meno suicidi di adesso, probabilmente per una logica di controllo sociale, perché quando si vive in una cella con 4 persone è difficile avere quello spazio per farti del male. Da quando ho cominciato a lavorare dentro il carcere ho conosciuto l’autolesionismo, il farsi del male per ottenere qualcosa o perché afflitti da un forte malessere.
Tornando ai numeri, per quanto riguarda i 350 che non passano dalla scuola, non riusciamo a recuperarli però cerchiamo di offrire, attraverso i progetti, la possibilità di attirarli, di coinvolgerli; ad esempio c’è chi si iscrive al corso di scrittura creativa, chi a quello di lettura ad alta voce, al corso di storia, c’è l’offerta della musica, del cinema e del teatro. Poi c’è un percorso di storia dell’arte e i progetti con i musei.
Dai tempi della pandemia, la scuola è dotata di LIM, le lavagne interattive multimediali per ogni classe. Abbiamo ottenuto dal Comune di Firenze le cedole per comprare i libri e possiamo avere anche quaderni e cancelleria. Perciò ogni allievo ha un suo libro e riesce a fare un percorso che può anche continuare in cella se vuole. Naturalmente per chi non ha mai frequentato la scuola è tutto più difficile e la voglia di partecipare o di sentirsi fuori dalla cella e vedere altre cose sono elementi fondamentali”.
Alle quotidiane difficoltà che possiamo immaginare un educatore deve affrontare, si sommano quelle derivanti dal mosaico linguistico e culturale che compone la popolazione carceraria. Firenze è un caso particolare, in quanto la percentuale si aggira sul 70%, a fronte del 35% circa della media nazionale. Racconta Pedron che nelle classi gli allievi formano un planisfero: tunisini, marocchini, egiziani si mettono insieme da una parte, lo stesso fanno i cileni e i peruviani nel gruppo dei sudamericani, allo stesso modo tengono ad aggregarsi rumeni, moldavi e albanesi, poi anche ghanesi e nigeriani nel gruppo centroafricano. Capita che un africano sia di lingua francese e comincia a parlare di più con marocchini o tunisini, perchè magari il suo compagno nigeriano parla in inglese. Tutti devono imparare a seguire le lezioni in italiano. Se a metà o alla fine dell’anno hanno imparato i nomi di tutti quanti e si mescolano, si aiutano e parlano tra loro è già un enorme successo. Le attività extra in questo senso sono utilissime per creare questo tipo di rapporto, che si rivela fondamentale anche nelle sezioni, perché lì sta il vero problema, dove i rapporti diventano conflittuali, dove i detenuti si trovano a condividere spazi piccoli con gente sconosciuta, che ha comportamenti diversi, orari di preghiere diverse, abitudini e vizi diversi. La gestione dei conflitti è talvolta molto difficoltosa e ricade sugli agenti di polizia penitenziaria la capacità di riuscire a trovare il modo di governare le situazioni. Bisogna poi considerare la presenza di problemi psicologici o psichiatrici che, secondo la ASL, in forme più o meno gravi, affligge il 70% dei detenuti, e non tutti dall’esterno verso l’interno; alcuni si ritrovano all’interno del carcere a sviluppare questo tipo di problematiche. Naturalmente questi disturbi se li portano a scuola. Dei 32 anni di esperienza, Pedron racconta tuttavia di non aver avuto problemi gravi di questo tipo, forse perchè chi sceglie di frequentare la scuola ha già un atteggiamento costruttivo, ancora maggiore se decidono di proseguire, e questa è l’abitudine che tendono a creare lui e i suoi colleghi, perchè il passaggio alfabetizzazione-scuola media-scuola superiore e, chi con condanne più lunghe, anche università, è per loro un grande risultato. Così incoraggiano anche le attività esterne e anche lì i risultati si vedono. “Numeri piccoli, certo, numeri piccoli ma è su quello che lavoriamo. Ognuno di loro è diverso”, aggiunge Pedron.

Maria Gloria Roselli

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