Cappellani in carcere? Russo: “O denunciano la violazione dei diritti o non sono credibili”

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Ho letto l’intervista rilasciata su Toscana Oggi dall’Ispettore Generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, in occasione della sua visita di tre giorni presso alcuni istituti penitenziari della Toscana. Dalle sue parole voglio trarre alcune riflessioni.

di Vincenzo Russo
Già Cappellano a Sollicciano

Tutti deplorano le condizioni in cui sono costrette a vivere le persone detenute e, alla loro situazione oggi disperata, vogliono anteporre l’annuncio di una prospettiva opposta, appunto quella della speranza. Così si esprime anche l’Ispettore Generale. Ma se ci fermiamo un attimo e andiamo oltre la superficie, scopriamo che la speranza di cui si sente parlare è un vestito vuoto, una parola di fumo che presto svanisce, piuttosto adatta ad infiorettare un cristianesimo di facciata.

Davvero il carcere è luogo di disperazione. Non solo per le inadeguatezze strutturali e di risorse umane, ma particolarmente per l’assenza di proposte vere di vita. Alla desolazione dei detenuti si pensa di opporre un laboratorio o un’attività, organizzati tra quattro mura e semmai immortalati da foto ricordo a fini pubblicitari? Può essere questo motivo di vera luce e speranza per chi è recluso? Non occorre, piuttosto, rendere tali persone capaci di “stare in piedi” nella vita, di uscire da quella sfortunata esperienza con elementi di forza e preparazione che possano consegnarle ad un futuro possibile e sereno?

Ripenso all’intervista e scorgo come la speranza richiamata quale emblema di questo anno giubilare, appaia ridotta a santino, a bella parola. In carcere quello che manca è la dignità; questa non può scaturire da una pacca sulla spalla, da una buona parola. Per rigenerarla occorre la presenza di una testimonianza che si fa vicina, che condivide, che porta insieme. Il cappellano ha un ruolo essenziale, può sostenere tale percorso di speranza: ma ciò comporta concretezza, significa portare alle persone detenute una prospettiva reale di uscita da quella situazione di pura passività e mestizia.

Il cappellano deve essere voce di uno che grida nel deserto: nel deserto della mancanza di dignità, della violazione dei diritti, dell’assenza di difesa e sostegno in favore delle persone recluse che oggi prevale in ogni contesto. Una voce coraggiosa, che non si limita al momento liturgico ma va oltre e denuncia gli orrori che vede, affondando la propria attenzione nei luoghi dove l’umanità dei detenuti è calpestata.

Caro Ispettore, non è l’invito a guardare Gesù che può risollevare la sorte presente di un detenuto; può farlo, piuttosto, lo sguardo dell’uomo che non si dimentica di lui, sguardo che deve appartenere all’intera comunità esterna e anche al cappellano. Il detenuto ha bisogno di sentirsi riconosciuto nella sua dignità, di acquisire la forza di stare in piedi nella vita, di ricominciare a costruire un proprio futuro.

Tutti parliamo di speranza ma non ci accorgiamo che essa rimane parola vuota se non segue l’impegno a trascinare quelle persone fuori dal non senso, per offrire loro un percorso concreto ed efficace. La preghiera non è un fatto intellettuale o puramente spirituale, ma un evento che coinvolge tutte le dimensioni della vita. Davanti ai cappellani si pone oggi un grido di angoscia, fatto di vere ferite, di sangue che scorre. La morte spadroneggia in carcere, come dimostra il numero record dei suicidi nello scorso anno.

Di fronte a questo non può reggere la storiellina dell’attività ricreativa, o della visitina del personaggio di turno. È necessaria la profezia, quella capace di riconoscere in chi è oltre quelle mura, il povero e, quindi, lo stesso Cristo. “Ero forestiero, avevo fame, ero nudo, ero in carcere…”. Ogni persona detenuta ci interpella e attende da noi la speranza vera, che deve essere connotata da fatti, qui ed ora, da elementi concreti e oggettivi, non parola di pura promessa rinviata ad un domani che mai arriva.

I detenuti sono orribilmente soli e, ad oggi, poco o nulla si fa per strapparli a questa condizione. Soli sono anche i cappellani. Ho letto che un elemento di forza è la vicinanza dei loro pastori. Nella mia esperienza di cappellano ho provato una terribile solitudine, che si è accentuata nel momento in cui più avrei avuto bisogno di sostegno. Volevo essere voce e lo sono stato, voce che grida nel deserto. Ma nessun’altra voce, nella famiglia della Chiesa, si è fatta accanto.

Leggo che finalmente oggi è inaugurata una stagione nella quale il carcere ha ricevuto un volto nuovo. Si fa fatica a scorgere questo nuovo volto, che non saprei dove individuare se non, amaramente, nel silenzio. Sì, il volto del silenzio: il silenzio delle Istituzioni politiche, della società, dell’Ispettorato dei Cappellani.

Se, come accade fino ad oggi, manca la denuncia forte e chiara dei veri soprusi perpetrati contro il povero dentro le carceri, allora di cosa stiamo parlando, quale speranza vogliamo annunciare! Non siamo assolutamente credibili.

 

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