Persone vs indicatori. Studenti internazionali all’Università di Firenze

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Le studentesse e gli studenti che hanno avuto il privilegio di usufruire della mobilità internazionale, come il programma Erasmus+, hanno una vaga idea di cosa significhi rivolgersi a uffici universitari in una lingua che non è la propria. Fortunatamente, il sistema di istruzione occidentale ha posto la lingua inglese al vertice dei sistemi di comunicazione, quindi teoricamente chi lavora negli uffici pubblici dovrebbe avere una preparazione base di inglese. E fin qui, sulla carta, ci siamo. Certo, sulla carta ha sempre il suo peso: non è sempre vero che la preparazione linguistica degli uffici pubblici sia sufficiente per una comunicazione efficace in lingua inglese. Già qui ci avviciniamo allo scopo di questo articolo, ovvero quello di dimostrare la discrasia tra retorica e realtà, tra simbolo e fatto, tra proclama e comportamento reale.

Ho lavorato nell’ufficio del settore orientamento dell’Università di Firenze, per qualche mese, in Piazza San Marco. È stato uno dei lavori più logoranti della mia vita – logoranti a livello psico-affettivo. Andiamo dritti al punto: il servizio per gli studenti internazionali, ad UniFi, praticamente non esiste. Persone hanno pianto nella sedia di plastica di fronte a me. Persone mi hanno confidato di non avere un posto dove dormire, di avere paura che la famiglia di accoglienza volesse organizzare un matrimonio con il loro figlio, di non aver trovato una persona reale con cui parlare in ufficio, di aver fatto decine di chiamate senza risposta. La discrasia, qui, la frattura, si svolge tra gli obiettivi di internazionalizzazione esposti dal sistema accademico e quello che poi diviene il trattamento umano riservato a studentesse e studenti internazionali che si trovano a Firenze per studiare. Indicatori, obiettivi, dati, contro la vita reale: casa, servizi, supporto, ascolto.

La situazione del sistema universitario ormai è pietosa. L’università si fonda e alimenta quelli che sono i principi fondanti della democrazia occidentale: uguaglianza, importanza del sapere, socializzazione della conoscenza, investimenti per il futuro di società e cittadinanza. La maschera è sempre quella, alti ideali per una civiltà gloriosa. Ma quanto corrispondono alla realtà questi ideali? L’aziendalizzazione del settore universitario è stato un processo decennale che vede ormai il modello anglosassone e statunitense imporsi a discapito delle basi di welfare italiano: l’Università è sempre meno un ente pubblico e sempre di più un’azienda privata, una compartecipata diciamo, dove l’afflusso di investimenti da privati cresce anno dopo anno. Le grandi aziende, soprattutto quelle dell’area scientifico ingegneristica, finanziano progetti, corsi di laurea, percorsi per CFU, insomma entrano a gamba tesa nel bilancio di ateneo guadagnandosi il nome di stakeholder, portatore di interessi. A mio avviso, due dovrebbero essere gli stakeholder degli atenei: 1) lo studente o la studentessa, 2) lo stato. Perché l’università, attraverso la formazione dell’individuo, lo arma degli strumenti e delle strutture cognitive utili a entrare nella vita reale esprimendo il proprio habitus e usufruendo delle conoscenze acquisite al fine di migliorare la sua vita e quella della società dove vive. Questo è all’incirca il ruolo dell’università, secondo me. Il che implica la possibilità di fornire a studentesse e studenti la capacità intellettiva e psichica per opporsi e criticare il sistema vigente. Ricordo quel cartello ad una manifestazione universitaria americana in favore della cessazione del genocidio contro il popolo palestinese: «Perché ci fate studiare Said se poi non lo usate?». Eccolo il bug: la comprensione critica delle cose che l’università permette, o permetterebbe, di sviluppare, contro il suo comportamento istituzionale.

Quando un sistema fondato sull’individuo sposta le sue funzioni verso l’asservimento ad apparati socioeconomici che non sono quelli che usufruiscono direttamente del servizio pubblico, l’individuo perde di importanza e si trasforma, come ogni ente del 2024, in cliente e dunque consumatore. L’università italiana, in questo momento storico, fa di tutto per attrarre clienti, cioè studentesse e studenti, per andare incontro ai bisogni del mercato del lavoro, quella parte di mercato che si muove perché è già ricca, finanziata, produttiva, in modo da sfornare prodotti facilmente inseribili nel contesto di quegli stessi stakeholders che poi, assumendo in azienda ottimi soldatini produttivi, finanzieranno ancora l’ateneo perché fornisca altri soldatini, e così via. Le ricadute sul territorio, sulla comunità, sono secondarie. L’effettiva permanenza dell’individuo all’interno del percorso accademico non è importante.

Anche gli studenti e le studentesse internazionali sono possibili clienti per gli atenei. Anzi, sono clienti che valgono di più, clienti che hanno un indicatore specifico a loro carico e che si rapporta ad un maggiore finanziamento nel FFO (Fondo di finanziamento ordinario, i soldi che ad ogni manovra economica del governo vengono stanziati agli atenei pubblici, in funzione delle loro performance): maggiore è il punteggio nel settore internazionalizzazione, maggiore prestigio dimostra l’ateneo e dunque più soldi si merita. Ma la qualità di questa quantità non viene di solito valutata. L’università è galvanizzata per avere magari tot numero di studenti internazionali, ma che questi studenti rischino di perdere il visto o il permesso di soggiorno perché non riescono a risolvere i loro bug di immatricolazione non è un problema. A questo punto, però, dobbiamo fare una distinzione. Perché sì, le persone non sono mai uguali. Lo studente francese con genitori di origine italiana che vive a Parigi ma vuole studiare ad UniFi, avrà poche difficoltà: tendenzialmente conosce l’inglese, se non anche l’italiano, ha vissuto in un sistema di istruzione diverso ma facilmente avvicinabile al nostro, ha un certo reddito per permettersi una casa a Firenze e magari ha anche il parente qua. Questo è il cliente ideale, perché non richiede nulla: viene, si iscrive, paga le tasse, paga l’affitto, si laurea con la lode, aumenta il prestigio dell’Università e si crede parte dell’élite per essere uscito con la lode in un Ateneo italiano, cosa che mantiene sempre un certo valore simbolico.

Poi ci sono gli altri e le altre, quelle che di solito si recano in ufficio da noi con disperazione e rabbia a livelli estremi. Loro vengono da una parte del mondo dove l’inglese non si studia alle elementari, dove i redditi sono bassi di norma, dove la scolarizzazione avviene secondo dei metodi distanti dai nostri, dove la burocrazia si svolge in modo differente. Queste persone non hanno speranza. Sono persone che vengono dall’Algeria, dalla Tunisia, dal Marocco, dal Bangladesh, dal Pakistan, dal Bahrein, dall’Afghanistan. Sono persone che, avendo dell’Europa l’idea che l’Europa racconta di sé – civile, funzionale, umana, produttiva, idealistica, morale, etica, superiore, tradizionale – vengono qui sperando di trovare un ufficio aperto che possa riceverli, mentre l’ufficio ti riceve su prenotazione e il prossimo slot disponibile è tra un mese, quando tu avrai già perso il permesso di soggiorno e, senza soldi, dovrai tornare al tuo paese.

Loro sono le persone che hanno bisogno di quel famigerato sistema che noi occidentali crediamo di aver costruito. Secondo i dati disponibili sul sito di UniFi, redatti dall’ANVUR e poi interpretati dal Nucleo di valutazione, non ci sono grandi azioni atte all’attrazione di studenti e studentesse internazionali come non ci sono investimenti sui servizi agli studenti. Ma il tutto sembra ancora più grottesco: alcune pagine del sito UniFi in inglese non ci sono, errore 404; ti ritrovi nella sezione dedicata agli studenti internazionali, ma è scritta tutta in italiano. Alcuni link del Manifesto degli studi, carta di identità di un Ateneo verso la comunità pubblica, non si aprono, rimandano a pagine inesistenti. Il sito è stato rifatto nel momento delle immatricolazioni, così che il casino raggiungesse non solo chi si doveva immatricolare, ma pure coloro che il sito precedente lo conoscevano. La traduzione del sito probabilmente è affidata a qualche tutor, ovvero a studentesse e studenti che collaborano per pacchetti orari con l’università (non un lavoro strutturato, quindi, quando nel 2024 un’istituzione pubblica che deve costruire un sito nuovo dovrebbe spenderne così di soldi per farne uno funzionale). Continuiamo? Vi invito a navigare sul sito UniFi.

Il livello di abbandono al primo anno è altissimo. Le persone, sedute nella sedia di plastica dell’ufficio orientamento in piazza San Marco, a 20 metri dalla sala della rettrice, mi dicono che cambieranno ateneo perché non è possibile non avere una persona con cui parlare, non è possibile non ricevere una risposta al telefono, non è possibile non ricevere aiuto per trovare un alloggio. Firenze è una città difficilissima (sono un dottorando trasferito in città nel 2023), ci si aspetterebbe dei servizi: UniFi mette in piedi dei servizi che in pratica sono l’affiliazione a immobiliare.it, sistemi di affitti a prezzi esorbitanti proposti a persone che evidentemente si iscrivono all’università in Europa solo per avere un pretesto legale per starci, qui, per cercare di costruire una vita diversa. Grazie occidente dice qualcuno, grazie per aver prodotto solo discorsi simbolici e aver lasciato la vita reale delle persone dentro i registri contabili, negli indicatori ANVUR. Una città come Firenze chiaramente ha un livello di attrattività internazionale maggiore che, non so, Chieti, per cui ci si aspetterebbe dalla illuminata e funzionalissima governance dell’ateneo di Firenze una mossa preventiva, una strategia d’attacco (contro la disumanizzazione e lo sfruttamento) e invece… invece ce la cantiamo e ce la suoniamo per i cento anni dell’Ateneo. Il che dimostra come tutto il territorio fiorentino, tutta l’area istituzionale e di governo di Firenze non abbiano la più pallida idea di cosa succeda nelle loro strade, di come vivano le persone nelle case, se ce l’hanno.

Ma il problema sta tutto, forse, nei soldi. Nella cultura, certo, anche in quella: questa cultura italiana putrefatta, dalla destra alla sinistra, stagnante, ipocrita (già Gramsci parlava dell’implicita ipocrisia della classe intellettuale italiana). Ma le risorse contano. Un settore pubblico che vede diminuire decennio dopo decennio i propri finanziamenti pubblici, per mantenere la struttura deve per forza cercare i soldi altrove – un po’ saranno le tasse studentesche, un po’ saranno i finanziamenti privati – e farsi dare i soldi da qualcuno che non sia obbligato per legge a darteli significa, passatemi il termine, vendersi. Gli Atenei sono sempre più costretti a farlo, e questo pesa sulla fruibilità dei servizi da parte della comunità studentesca. Almeno si togliessero la maschera, le istituzioni, sembrerebbero meno ridicole. Ma sia, lo spettacolo non potrà durare per sempre, gli spettatori sentono quella che Wissal Houbabi, una delle artiste emergenti più importanti della scena artistico-letteraria italiana, chiama la gran puzza di merda nell’aria. Queste mie parole potrebbero essere nient’altro che un corollario alla sua performance, sulla quale già c’è della bibliografia accademica. Vi invito a leggerla e ad ascoltarla.

 

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Matteo Cristiano

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