Pubblichiamo la relazione tenuta dalla prof.ssa Patrizia Nanz, presidente dell’Istituto Universitario Europeo, all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Torino, il 21 febbraio 2025.
L’intelligenza artificiale è diventato sinonimo di innovazione. 109 miliardi di euro destinati all’intelligenza artificiale in Francia, 138 miliardi di dollari in Cina, 200 miliardi di euro nell’Unione Europea, 500 miliardi negli Stati Uniti – chi può spingersi oltre? Chi si trova in vantaggio? E noi europei, stiamo rimanendo indietro? Dobbiamo continuare a fare affidamento sulla tecnologia americana, rivolgerci a quella cinese o dare la priorità ai nostri campioni?
Soffermiamoci un attimo su come scegliere una via congrua con i valori europei e sull’impatto dell’intelligenza artificiale. Innanzitutto, sull’ambiente: si pensi all’enorme quantità di energia necessaria per raffreddare i data center. Poi sul mondo del lavoro e dell’arte, messi a dura prova dall’automazione. E sulla sicurezza, dove l’uso dell’intelligenza artificiale solleva preoccupazioni su disinformazione, sorveglianza e altre minacce.
Qual è il livello di rischio che siamo disposti a tollerare? E quali minacce dovrebbero indurci a definire la regolamentazione?

Ma siamo davvero sicuri di aver posto la domanda giusta?
Come ha scritto recentemente il premio Nobel per l’economia Daron Acemoğlu, non dovremmo chiederci prima di tutto: “nell’interesse di chi sta avvenendo questa trasformazione, e a quale tipo di futuro sta dando vita?”.
Io mi spingerei ancora oltre: e l’interesse dell’Europa? Che tipo di innovazione vogliamo per il nostro futuro?
Durante la preparazione di questo discorso, mi sono chiesta se non stessi usando toni troppo cupi – forse non così indicati per la cerimonia di apertura dell’anno accademico di quest’ università. Ma siamo onesti: ci troviamo sull’orlo di un baratro, climatico e geopolitico.
E invece di riflettere seriamente su quale strada prendere e poi andare decisi, ci viene detto semplicemente di andare più veloce.
Eppure, a settembre, Mario Draghi ha riassunto efficacemente la situazione nel suo rapporto sul futuro della competitività: tutti i valori su cui è stata costruita l’Europa – ha affermato – sembrano essere minacciati: prosperità, equità, libertà, pace, democrazia. Nella prefazione del rapporto si legge che “le fondamenta su cui siamo costruiti stanno vacillando”.
Di fronte alla crisi che si prospetta, Draghi ha svelato la soluzione che gli era stata richiesta: quella di un cambiamento radicale (parole sue) basato su una maggiore competitività,
trainata dall’innovazione tecnologica. Soluzione che è stata tradotta dalla Commissione Europea nella nuova bussola per la competitività.
Ma competitività e innovazione a che pro esattamente?
Nemmeno le Big Tech hanno davvero una risposta. Nel 2019, il Monsignore Vincenzo Paglia è stato contattato dal presidente di Microsoft, Brad Smith, per unirsi a un gruppo di esperti in etica e filosofia morale, che Smith ha definito “interlocutori indispensabili” per i 50.000 ingegneri dell’azienda di Seattle. Smith ha detto a Paglia: “abbiamo tra le mani potenzialità enormi per il progresso umano ma anche prospettive terribili per manipolare in maniera radicale l’umano”.
Non si può certo dire che le nuove tecnologie scarseggino: l’innovazione è ovunque.
Basta guardarsi intorno o fare una rapida ricerca online per rendersi conto della portata dell’inventiva umana. A scarseggiare sono piuttosto:
- la capacità di dare senso a questo flusso costante di innovazione;
- e le scelte politiche in grado di dargli una direzione precisa.
Ho avuto una chiamata recente con un ingegnere cinese a capo di un centro di ricerca. E lui mi ha detto: “negli Stati uniti è Big Tech a dare la direzione all’innovazione, noi cinesi abbiamo il Partito e voi in Europa chi avete per dare la direzione?”
Senza offesa per gli esperti industriali: non abbiamo bisogno di un’altra rivoluzione industriale che potenzi ulteriormente l’estrazione di risorse.
Ciò di cui abbiamo realmente bisogno – e non mi viene in mente posto migliore dell’Italia per affermarlo – è un nuovo Rinascimento.
Senza dubbio, l’innovazione è indispensabile per affrontare le sfide che si presentano al nostro pianeta e alle nostre società: abbiamo urgente bisogno di percorrere strade inesplorate.
L’innovazione non riguarda solo la tecnologia, dal momento che modella e viene modellata dalle società che la adottano. Ogni innovazione tecnologica è anche un’innovazione sociale.
È da qui che dovremmo partire. Dobbiamo sviluppare nuove capacità organizzative e culturali per stabilire quale direzione prendere: la vera sfida è di civiltà. E in questo le università svolgono un ruolo cruciale, che va ben oltre quello di bacino di talenti o di incubatore di idee.
È questo il mio messaggio per voi in apertura dell’anno accademico.
Ripartiamo dalle basi. Che cos’è in fondo l’innovazione? Tutto sommato, non è altro che un’etichetta che applichiamo a un prodotto o a una pratica per qualificarli come nuovi.
Il che, innanzitutto, è un costrutto legale. Guardate alla storia dei brevetti: la loro finalità principale non era veicolare una visione grandiosa del progresso, ma semplicemente dare agli inventori un motivo per andare avanti, per vivere delle loro creazioni, e magari fare fortuna.
Eppure, molte innovazioni inizialmente sono passate inosservate: scoperte inaspettate, idee trascurate, scommesse fallite o che hanno dato i loro frutti solo molto più tardi.
Vediamo alcuni esempi.
L’energia eolica è stata sperimentata e poi abbandonata in molti Paesi negli anni ‘70 e ‘80, ad eccezione della Danimarca, dove le politiche antinucleari l’hanno mantenuta in vita. Oggi la tecnologia eolica danese alimenta le reti di tutto il mondo.
Ma ci sono esempi anche più recenti: le schede grafiche, originariamente progettate per i videogiochi, sono alla base del boom dell’intelligenza artificiale generativa.
Questi esempi smentiscono che vi sia un flusso unidirezionale dell’innovazione che va dai laboratori ai mercati. D’altra parte, è raro che le innovazioni incontrino subito i propri fruitori: anche i pionieri dell’elettricità dovettero convincere le persone che non era pericolosa.
L’innovazione non si limita a una tecnica ingegnosa, ma si modella in base all’uso effettivo che ne viene fatto, spesso in modi che nessuno aveva previsto. Ed è per questo che è sbagliato guardare all’innovazione come ad un processo lineare, in cui designer e utenti sono completamente separati, oppure concentrarsi sulla ricerca di un’unica mente brillante o dell’innovatore da sostenere.
Prendiamo Google. Come molte Big Tech, quella che lo ha reso celebre – il suo motore di ricerca – non è il prodotto di un genio solitario, bensì del lavoro di una trentina di ricercatori,
provenienti da ambiti diversi come la sociologia matematica o le scienze librarie, che hanno potuto beneficiare di finanziamenti pubblici per la ricerca.
Oppure guardiamo all’intelligenza artificiale generativa, i cui modelli vengono istruiti tramite dati presenti nel web, con contenuti spesso protetti da diritti di proprietà intellettuale.
Questi modelli apprendono grazie alle tracce digitali che ognuno di noi semina online – dati che vengono poi ripuliti da milioni di lavoratori invisibili.
Tutto ciò solleva una domanda cruciale: chi contribuisce effettivamente all’innovazione? E cosa ci aspettiamo davvero dall’innovazione?
Innovazione che spesso viene equiparata al progresso. E che sì, sicuramente ha il potenziale per favorire un cambiamento positivo. Ma è anche necessario restare in guardia sui possibili rischi, soprattutto quando l’innovazione va così veloce da non permettere alle società di tenere il passo.
L’intelligenza artificiale rappresenta un caso emblematico.
Sono appena stata a Bruxelles e alla Commissione Europea mi hanno detto che hanno già iniziato ad avvalersi dell’intelligenza artificiale per produrre politiche. Tuttavia, si teme che le persone che ci lavorano non abbiano ancora sufficienti competenze e distacco critico per poterla veramente usare. In secondo luogo, l’intelligenza artificiale solleva serie preoccupazioni riguardo al consumo massiccio di energia e agli impegni assunti dall’Unione Europea con il Green Deal.
Dunque, la domanda rimane: come pensare e agire collettivamente per plasmare il nostro futuro? Come creare un futuro digitale congruo ai valori europei?
La direzione verso cui l’innovazione ci conduce in quanto società è una questione profondamente politica. Basti pensare ai potenziali sconvolgimenti che i social media possono determinare: rimodellano il modo in cui accediamo alle informazioni, fino a scuotere le fondamenta stesse della sfera pubblica, della sicurezza e della democrazia. Questo attinge alla questione della nostra civiltà.
Orientare l’innovazione non spetta solo alle politiche pubbliche, ma dovrebbe essere una responsabilità condivisa da tutti i cittadini: definisce la direzione dell’Europa e del nostro futuro.
Eppure, nella prospettiva lineare che domina le attuali politiche per l’innovazione non c’è spazio per l’esplorazione di percorsi più congrui con la sovranità europea. Io non sono una tecnica però potremmo chiederci se c’è modo per costruire piattaforme e infrastrutture digitali europee. E ci sono già delle proposte…
Ed è qui che entrano in gioco le università, le quali però, si trovano sotto attacco. J.D. Vance non è il solo ad aver sostenuto che le università antepongano l’ideologia alla verità e che non meritino di essere finanziate pubblicamente. Dovremmo, invece, fare in modo che le università rimangano più unite e aperte che mai alla società.
Sappiamo tutti che le università sono fonti imprescindibili del sapere, motori essenziali dello sviluppo delle competenze. Molti studi evidenziano il loro ruolo come fattori chiave del successo degli ecosistemi di innovazione. Ma le università sono molto di più: sono ancore per un cambiamento radicale.
Le università forniscono uno spazio essenziale per uno scambio informato, scambio che dovrebbe precedere e orientare qualsiasi politica di innovazione. Fanno sì che le innovazioni siano allineate ai bisogni reali della società, che la loro adozione sia ponderata e che ne derivino effetti tangibili.
Le università fanno tutto ciò in cinque modi.
1. Innanzitutto, contribuiscono a definire la direzione dell’innovazione, producendo sapere ma anche promuovendo dialoghi intersettoriali – creando spazi in cui far incontrare scienza, politica e società. É quello che facciamo all’Istituto Universitario Europeo a Firenze.
Le università producono conoscenza sistemica – quella che, per citare solo un esempio, fornisce dati e fatti basati sull’evidenza empirica per valutare le emissioni di carbonio. Tuttavia, affinché la transizione energetica possa essere realmente significativa, sono altrettanto cruciali altri due tipi di conoscenza.
Le università, infatti, producono anche conoscenza orientativa – che affronta le questioni più normative, guidandoci nel decidere cosa sia auspicabile e cosa andrebbe fatto.
Inoltre, le università producono conoscenza trasformativa, la quale riguarda la pianificazione di interventi all’interno di sistemi sociali e tecnici. Pensate alla transizione energetica nell’ambito dei trasporti. Non si tratta solo di eliminare la benzina, ma di cambiare radicalmente il modo in cui ci muoviamo e come ci organizziamo come società. Pensate per esempio al car sharing elettrico.
In entrambi i casi, le università non sono in grado di fornire da sole tutte le risposte.
Sebbene la ricerca offra spunti cruciali, le conoscenze orientative e trasformative non si creano in modo isolato, ma in coproduzione fra ambiti disciplinari, e fra diversi settori della società, insieme ad attori sociali ed economici, quindi con le imprese.
2. Le università contribuiscono alla regolamentazione. Gli studi di diritto e di governance possono essere molto inventivi in questo, come suggerito recentemente dal Rettore Stefano Corgnati, che sulla Stampa ha parlato di “innovazione normativa”.
Nel corso della storia, molte tecnologie sono state viste come una forza in grado di sconvolgere i quadri normativi tradizionali. E sebbene emergano approcci nuovi come quello promosso dell’Istituto Universitario Europeo sulla “Regolamentazione dell’innovazione nell’era digitale”, soprattutto per le istituzioni europee, vale però la pena ricordare che anche molte delle sfide odierne non sono affatto inedite.
Dibattiti simili hanno già interessato settori come il diritto della proprietà intellettuale o della regolamentazione dei flussi di capitale. Una tale prospettiva può aiutarci a evitare l’assunto semplicistico che la deregolamentazione favorisca automaticamente l’innovazione.
3. L’università fornisce una valutazione delle innovazioni. Chi promuove le nuove tecnologie spesso le presenta come game-changer, insistendo sul fatto che esse siano capaci di trasformare il mondo positivamente. Ma perché accettare questa visione senza discutere? Lo spirito critico non implica una resistenza al cambiamento.
Piuttosto che trasferire il dibattito sul piano semplicistico, etichettando le tecnologie come buone o cattive, la vera sfida è analizzare e comprendere i loro effetti concreti. Il che richiede un approccio che vada in profondità, più delle innumerevoli valutazioni d’impatto che vediamo oggi, la cui eterogeneità ne mina la solidità e che spesso non pongono le domande giuste.
4. Le università analizzano il modo in cui le innovazioni vengono implementate per adattarle di conseguenza. L’antropologia della tecnologia ha dimostrato da tempo la profonda interconnessione tra la dimensione sociale e quella tecnica. Cioè come l’uomo e la tecnologia si trasformino a vicenda.
La ricerca etnografica viene utilizzata in molti campi per promuovere l’introduzione di nuove tecnologie. Studi di questo tipo permettono di comprendere le esperienze delle comunità che hanno a che fare con queste tecnologie. Aiutano, quindi, ad adattarle a esigenze, abitudini e valori degli utenti, garantendo così, quando possibile, un’integrazione più efficace.
5. Le università preservano la trasmissione della memoria, un aspetto spesso trascurato.
Prendiamo il settore nucleare, dove ho lavorato per un paio d’anni. In Germania, per esempio, l’uscita dal nucleare ha determinato una perdita di competenze tecniche e scientifiche che crea grande vulnerabilità.
In casi del genere, diventa essenziale garantire la trasmissione del sapere, prevenire vuoti di competenze e consentire una gestione informata delle tecnologie a lungo termine.
Certo, le università sono responsabili della formazione di innovatori, regolatori, valutatori e custodi della nostra memoria nel futuro. Tuttavia, la bussola della competitività riduce il loro ruolo a una semplice fornitura di competenze, rischiando di far perdere di vista i cinque modi in cui le università orientano l’innovazione.
Molte reazioni al rapporto Draghi hanno giustamente sottolineato la quasi totale assenza delle scienze umane e sociali. Stabilire una falsa contrapposizione tra le scienze sociali e le STEM è un errore, perché abbiamo bisogno di entrambe. Le università sono molto più di un insieme di discipline che si contendono fondi sempre più esigui: fanno parte di un progetto quasi millenario di riflessività.
Riflessività significa non solo pensare al mondo, ma anche esaminare criticamente il modo in cui lo pensiamo. In un momento in cui siamo bombardati dai dati, la necessità di interpretare in modo significativo le informazioni è più che mai pressante.
Generando significato, le università modellano il modo in cui vediamo il mondo, il modo in cui gli diamo un senso e, in ultima analisi, il modo in cui agiamo in esso. Sono coinvolte in ciò che Hannah Arendt chiama “il politico”. Contribuiscono a definire i termini con cui viviamo insieme. Partecipano alla costruzione del “mondo che condividiamo”.
In un momento in cui i sistemi di istruzione superiore si trovano ad affrontare crescenti pressioni nazionaliste, anti-intellettuali e anti-scientifiche, dobbiamo restare uniti e continuare a rinnovare l’eredità delle università, stringendo alleanze autentiche.
Ciò significa enfatizzare la complementarità piuttosto che la competizione fra campi specializzati. Significa andare oltre i semplici scambi accademici per fissare obiettivi comuni.
Significa fare della traduzione interdisciplinare un pilastro centrale della collaborazione.
Significa costruire partnership flessibili, in grado di rispondere alle sfide del mondo reale, piuttosto che diventare routine distaccate.
Tali collaborazioni e iniziative sono state guidate spesso e volentieri da relazioni individuali.
La vera domanda è: come facciamo a sostenere queste collaborazioni e trovare un modo per modellare il cambiamento verso una prosperità sostenibile?
Ogni innovazione, non importa quanto rivoluzionaria, inizia a livello locale. Inizia dai laboratori, dai garage, dalle officine o da iniziative intelligenti nelle piazze. Per questo dovremmo rivolgerci soprattutto a ecosistemi regionali. E qui le università fungono da motori di innovazione sia tecnologica che sociale.
Prendiamo Barcellona, pioniera delle smart city progettate per promuovere la democrazia.
Barcellona ha sviluppato piattaforme digitali che permettono ai cittadini di proporre e votare progetti concreti. Madrid ha fatto lo stesso, costruendo in più una piattaforma open-source che si è poi diffusa in altre città europee. Non parlo di Torino, perché tutti voi conoscete l’eccellenza della capitale europea dell’innovazione 2024.
In Europa dovremmo cercare di essere uniti e umili imparando da esempi virtuosi, da ecosistemi industriali dinamici che puntano alla sostenibilità.
È da qui che possiamo costruire narrazioni concrete per il futuro dell’Europa. Come università, dovremmo agire come un’ancora del cambiamento radicale, facendo sì che scienze sociali e STEM lavorino insieme per formulare domande autentiche sull’innovazione dell’Europa.

Redazione

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