Non si salva il pianeta se non si salvano le convivenze urbane. Riflessioni sul libro di Giancarlo Consonni

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Iniziamo questo ragionamento a partire da due frasi del libro di Giancarlo Consonni, Non si salva il pianeta se non si salvano le città (Quodlibet 2024)*.

«Ogni intervento di trasformazione dell’ambiente fisico va in direzione del fare o disfare città e del tutelare o devastare i paesaggi. Per questo le scelte urbanistiche hanno portata squisitamente politica e conseguenze sul fronte dell’incivilimento» (p. 101).

Dalla situazione in cui siamo «Se ne esce solo con una profonda rivoluzione culturale. Un lavoro immane, ma che non parte da zero» (p. 100).

Recentemente, guardando la Milano-Sanremo, ho osservato, ripresa dall’elicottero, la riviera del ponente ligure: ebbene – ma non si tratta di un’eccezione rispetto al resto dell’Italia –, siamo di fronte ad un territorio devastato dalla speculazione edilizia: e La speculazione edilizia è appunto il titolo del romanzo che Italo Calvino ambienta nel 1957 proprio in quei luoghi.

Questo assetto del territorio è anche frutto, per parlare da tecnico, dell’assommarsi di “interventi diretti” e dell’assenza di Piani particolareggiati di esecuzione (PPE), che pure erano previsti dalla Legge urbanistica come fase attuativa dei Piani regolatori generali. Essendo i Piani particolareggiati nient’altro che progetti urbani planivolumetrici, la loro assenza ha determinato tout-court l’assenza di progetto urbano, di disegno urbano, e va tenuto presente che, come diceva un noto architetto fiorentino – forse un po’ troppo ottimisticamente –, «qualunque progetto (urbano, aggiungo io) è meglio che nessun progetto». Si è proceduto cioè ad una sommatoria di realizzazioni singole (villette e condomìni in prevalenza) per le quali l’unico controllo pubblico è consistito nell’applicazione degli “indici urbanistici”, tre numeretti (altezza massima, rapporto di copertura, indice di fabbricabilità) che certo non potevano e non possono supplire all’assenza di un progetto fisico complessivo.

Tra le poche eccezioni sono, sul territorio nazionale, gli interventi di edilizia residenziale pubblica (Ina-casa, Gescal, 167 etc.), i quali hanno proceduto sulla base di progetti urbani (cioè sulla base di PPE) e che, quando redatti da progettisti all’altezza del compito, hanno dato luogo a brani di città.

Poiché appunto, come abbiamo detto, non si parte da zero, tra gli esempi virtuosi di quartieri di edilizia residenziale pubblica nei quali ci si è avvicinati al “decalogo Consonni” vorrei ricordare, per trarne alcune regole riutilizzabili oggi:

– il Tiburtino a Roma (progettisti: Ridolfi, Quaroni etc., 1950), dove si è tentato di ricostituire il rapporto via/casa, e soprattutto si è tentata la ripresa del linguaggio figurativo e dei materiali della tradizione locale, in ciò che è stato definito “neorealismo architettonico”;

–  il coevo villaggio rurale de La Martella a Matera (prog. Quaroni, Gorio etc.) – al di là delle critiche che si possono muovere alla sostanziale deportazione degli abitanti dei “sassi” – che tenta di coniugare urbanitànel rapporto via/casa, nella realizzazione del centro civico particolarmente ricco di attrezzature (ambulatorio medico, asilo nido, asilo infantile, scuola elementare, negozi, laboratori artigiani, chiesa, ufficio postale, sede di quartiere) – e ruralità: oltre alla realizzazione del centro agrario, va notato infatti che il lato tergale di ogni abitazione dà su un vasto appezzamento di terreno arativo;

– il Cavedone a Bologna (prog. Gorio, Vittoria Calzolari, Benevolo etc., 1955), dove si realizzano grandi isolati urbani chiusi con vasta area verde interna, simili nelle dimensioni planimetriche e nelle altezze di gronda agli isolati della città tardomedievale. Di tre piani su piano terra specialistico, di mattoni faccia vista, distinguono, come nell’esempio storico, un fronte esterno pubblico, minerale, rumoroso da un fronte interno privato (o semipubblico), vegetale (a giardino, e non a parcheggio automobilistico), silenzioso;

– il piano per l’edilizia economica e popolare PEEP-Centro storico di Bologna (assessore Cervellati, 1972), che recupera e ripristina vaste aree della città tardomedievale col doppio fine di conservare la urbs (la città fisica), ma anche la civitas (la cittadinanza), in particolare nelle sue fasce meno abbienti, dotando pure i quartieri interessati di attrezzature pubbliche tramite recupero di conventi dismessi.

E poi, a livello internazionale:

– l’ IBA di Berlino (Internationale Bauaustellung, Esposizione internazionale di architettura, 1979, operazione pubblica che in un quinquennio ha dato la casa a circa 35.000 persone) fondata su alcune semplici regole, tra le quali: edificazione a isolati; allineamento stradale dei fronti; altezze di gronda uniformi; città di pietra;

– vent’anni dopo (1999), il Planwerk Innenstadt Berlin, Piano per la città storica di Berlino entro la cinta daziaria del XVIII secolo (Hans Stimmann, direttore edilizio del Senato di Berlino), propone «il riallacciamento sperimentale alla tradizione urbanistica e architettonica europea, in particolar modo del XIX secolo», ottenibile applicando una serie di regole, quali:

permanenza della città e dell’architettura, no alle “città per una generazione”;

architettura e particella urbana come fondamento, composizione dello spazio urbano per mezzo della casa, della strada e della piazza;

spazio urbano definito, anzi ben definito, non spazio urbano libero aperto, fluente tra edifici solitari;

giusta mobilità, città comodamente visitabile con strade attraversabili dai pedoni “mentre guardano gli edifici”, basta con la città adatta all’automobile;

modernità e tradizione, nessuna rottura con la storia;

rafforzamento di una identità berlinese, no all’uniformità internazionale.

Viene da chiedersi se di questi avanzamenti culturali abbiano avuto notizia gli autori, ai vari livelli, degli interventi milanesi di “City life”, di piazza Gae Aulenti e dintorni, etc. (ma la critica, per altri aspetti, potrebbe molto facilmente estendersi al caso fiorentino).

Affronto poi l’importante tema del ruolo della città storica.

Scrive Consonni: «Si tratta dunque del risultato di un processo dialogico: la bellezza civile nasce e fiorisce nell’interazione delle presenze (gli organismi edilizi) in spazi aperti pubblici trasformati in teatri in cui la convivenza si autorappresenta (non in una logica autocelebrativa ma con funzione dinamica: di ponte tra le generazioni)» (p. 97).

Vi si legge in trasparenza Camillo Sitte (L’arte di costruire le città, 1889), quando il viennese afferma: «Le grandi piazze, allora [nell’antichità], costituivano per ogni città un imperativo vitale, nella misura in cui vi si svolgeva una gran parte della vita pubblica che oggi, al contrario, viene relegata in locali chiusi. Nell’agorà a cielo scoperto si riuniva il Consiglio delle antiche città greche» (p. 23).

Tralasciando i fondamentali aspetti estetico-formali, ivi compresa l’ “internità dell’esterno”, di cui credo parlerà Consonni, vorrei concentrarmi ora sugli aspetti legati al ruolo della memoria.

In piena continuità con l’esempio antico, il libero Comune medievale si dota, a partire dal Duecento, del Palazzo del Popolo, luogo di raccolta dei cittadini per trattare in comune comuni interessi, normalmente affacciato, quale annesso coperto, sulla piazza del popolo: a Milano il “palazzo della ragione”, formato da una grande sala al piano superiore, su portico a giorno al pian terreno; a Firenze il “palazzo dei priori”, poi “palazzo vecchio”, per il quale, essendo chiuso a piano terra, si costruisce la loggia dell’Orcagna al fine di favorire le assemblee cittadine all’aperto. I grandi saloni che vi si aprono, e i portici e le logge, erano i luoghi in cui si esercitava la democrazia del libero Comune, e noi, attraverso questi edifici e questi spazi aperti pubblici, abbiamo la prova fisica, materiale, che tale democrazia diretta è esistita.

Ce lo spiega Françoise Choay, la quale afferma: «È fondamentale comprendere che la facoltà di parlare e la facoltà di costruire sono le due facce della stessa competenza che fa di noi degli umani: cioè la competenza di simbolizzare; e che è attraverso lo spazio costruito che noi riusciamo a memorizzare ciò che il linguaggio esprime nell’istante ma è evanescente, e che riusciamo a costruire il nostro stato di cultura e le nostre identità umane nel tempo» (Choay 2011, p. 89).

Ecco quindi il ruolo di “ponte tra le generazioni”, come afferma Consonni, delle città storiche, per la trasmissione, di generazione in generazione, dei valori di convivenza civile, di democrazia (il più possibile diretta), e anche di autonomia, inscritti nel loro spazio costruito.

 

Riferimenti bibliografici:

Giancarlo Consonni, Non si salva il pianeta se non si salvano le città, Quodlibet, Macerata, 2024

Camillo Sitte, L’arte di costruire le città. L’urbanistica secondo i suoi fondamenti artistici (1889), Jaca Book, Milano, 1981

Françoise Choay, Presentando Del destino della città, in Daniele Vannetiello (a cura di), Dove va l’urbanistica?, Aión, Firenze, 2011, pp. 88-91

 

* Il testo qui pubblicato è la trascrizione del contributo di Daniele Vannetiello alla presentazione del volume di Giancarlo Consonni, Non si salva il pianeta se non si salvano le città tenutasi a Firenze (libreria Libraccio/Seeber, 27 marzo 2025) nella serie degli “Incontri di Quinto Alto” (“Gli spazi della parola. Incontri di filosofia e letteratura”). Con l’autore hanno partecipato, oltre a Daniele Vannetiello, Ilaria Agostini e Francesco Pardi.

Qui è possibile rivedere l’incontro.

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Daniele Vannetiello

Architetto e studioso, insegna Tecnica urbanistica all'Università di Bologna. Fa parte del Gruppo urbanistica perUnaltracittà. Ha partecipato al libro collettivo Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltracittà 2004-2014.

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