In difesa dell’arte di strada per una città più umana: Tomaso Montanari all’assemblea cittadina del 9 marzo alle Cure

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Questo testo riproduce fedelmente la lezione che Tomaso Montanari ha tenuto durante l’assemblea popolare organizzata a favore di Marco, il libraio senza dimora, dal giornale di strada Fuori Binario e tenutasi il 9 marzo 2025 in piazza delle Cure a Firenze. Qui il video

Buonasera a tutte e a tutti. Grazie a Cristiano Lucchi, grazie a Fuori Binario, grazie a tutte e tutti quelli che hanno voluto questa manifestazione.

Inizio con pochissime parole in latino che traduco subito dopo, perché siccome sembra che scrivere sui muri sia un’invenzione di alcuni marginali del nostro tempo forse è bene cominciare col ricordarsi che sui muri si è sempre scritto. E a Pompei su un muro riemerso dopo l’eruzione, si legge: «Admiror, paries, te non cecidisse ruina, qui tot scriptorum tedia sustineas», mi stupisco, o parete, che tu non te ne venga giù, da quante scritte hai sopra. Che sarebbe un bel motto da scrivere sui muri del Sottopasso delle Cure, che davvero è uno dei luoghi di Firenze in cui questa densità, questo bombing, questo addensarsi di scritte è più bello, e più comprensibile. Non necessariamente nei singoli elementi, che possiamo non capire: ma l’insieme è comprensibile nel suo essere sottratto all’utile, sottratto al  servire a qualcosa. Un momento di liberazione che è una cosa che noi, da alcuni secoli, chiamiamo arte.

Siccome chi ci governa ci vuol far leggere la Bibbia anche a scuola, si potrebbe  ricordare che il primo a scrivere sui muri nella nostra tradizione occidentale è il Dio della Bibbia: che  quando deve spiegare al re di Babilonia che non era una buona idea banchettare con i vasi del  tempio di Gerusalemme, con una mano scrive sul muro qualcosa che vuol dire ‘Dio ha contato il  tuo regno e gli ha posto fine: sei stato pesato e trovato mancante’. Quella stessa notte il re verrà ucciso. Scrivere sul muro serve a dire: ‘io ci sono’. Vale per il Dio della Bibbi, vale per gli anonimi scrittori – politici, in genere – della Pompei romana, e vale per gli artisti. Qualcuno di voi ricorderà i Coniugi Arnolfini di Van Eyck: l’abbiamo studiato a scuola, sul muro c’è  scritto «io fui qua, Johannes de Eyck». L’artista lo scrive sul muro: io sono stato qua. Credo che per molti degli artisti, per molte delle artiste, che scrivono sui muri oggi, questo scrivere sui muri abbia esattamente lo stesso significato: ‘io ci sono’. In una società che travolge le persone, che le marginalizza e le fa sparire, io nostante tutto esisto: ed esisto in un modo che non offende che non distrugge, che non rapina o uccide. Ma in un modo che gratuitamente dà arte, che gratuitamente dà sollievo, che gratuitamente  dà colore e forma agli altri umani che condividono la nostra vita.

Da un punto di vista storico i primi segni sui muri sono quelli delle  mani della preistoria: mani bagnate di colore che si appoggiano sulle pareti delle caverne usando la tecnica dello stencil, che è esattamente quella che si usa ancora oggi. Sono cose che avvengono  dalla Patagonia al Borneo: a chi oggi dice che ci dividiamo in razze (lo dice ancora la presidente  del consiglio, anzi il signor presidente del consiglio) o in etnie la storia dell’arte, anzi la  preistoria dell’arte, ci ricorda che in tutto il mondo l’umanità ha fatto la stessa cosa: ha messo le mani nel colore e le ha appoggiate a una parete. La cosa impressionante è che sappiamo oggi che questi complessi di mani colorate sono realizzate lungo decine di migliaia di anni: cioè non sono state fatte in un’unica soluzione, ma generazione dopo generazione. I figli, i nipoti, i pronipoti, in quel tempo lontanissimo, dicevano ‘anche io sono stato vivo, anche io sono vivo’. Credo sia il significato rimasto intatto da quelle grotte preistoriche fino a questa grotta delle Cure.

Esiste un momento storico in cui inizia ciò che vediamo su sui nostri muri. Si può ricordare che nel 1964 la canzone ‘The sound of Silence’ di Simon & Garfunkel dice che «le parole dei profeti /sono scritte sui muri della metropolitana / e negli androni dei palazzi». È una delle prime attestazioni letterarie di questo fenomeno, che inizia proprio negli anni  ’60 nell’America non solo di New York, di Manhattan, ma anche in altre città americane: Chicago è una delle prime. Inizia allora qualcosa che da allora si chiama street art, arte di strada, o Urban Art: non solo arte metropolitana, ma anche arte civica, arte cittadina. Un’arte tipica delle grandi città: è difficile pensare alle nostre città come delle opere d’arte globali. Eppure quella che i Romani chiamavano l’urbs, la città delle pietre, dovrebbe essere un’opera d’arte collettiva; così come dovrebbe esserlo la politica che prende il nome dalla polis che è il nome greco della città.  I latini distinguevano urbs la città delle pietre e civitas la città degli umani: potremmo dire che nella street art la città delle pietre dei muri e la città degli umani si incontrano, perché è uno dei pochi segni che ci restituisce alla nostra comune umanità. Da allora si può dire  che esistano, diciamo, due grandi filoni, due grandi correnti: quella dei writers cioè degli scrittori,  quelli che scrivono lettere; e quelli che fanno invece figurazione, gli autori dei murales. Entrambi possono usare tante tecniche: l’aereosol delle bombolette, oppure gli stencil, come si usava nella preistoria, o anche gli stickers, cioè attaccare dei manifesti, dei poster che sono stati preparati in precedenza. La mia generazione, poi, è affezionata ad una parola che suona ormai antiquata, i ‘graffiti’: una parola a cui siamo tutti affezionati, che per certi versi ci ricorda il nesso con una tradizione artistica che risale proprio fino alla preistoria.

E non si tratta solo di un’arte che moltiplica sulle pareti di uno stesso luogo tante figure e tante scritte diverse, con una tecnica che si chiama per l’appunto bombing, un bombardamento di segni e di immagini uno sull’altro. Ma esiste anche l’arte che si muove: le motion tags cioè le scritte o le figurazioni fatte sui treni, sugli autobus su qualunque cosa che si muova: con un’idea davvero importante cioè vincere l’immobilità dell’opera d’arte attraverso un supporto per sua natura mobile. Nel Quattrocento si inventò la stampa per far vedere le immagini ovunque, e oggi si può  dipingere un treno anche se forse Trenitalia non è tanto contenta: ma pazienza, perché io credo che siano sempre più belli i treni dipinti liberamente, che ci ricordano che siamo liberi cittadini, che non quelli che portano la pubblicità, cioè quelli che ci rendono clienti e consumatori.

La cosa che vorrei provare a sottolineare, e che dà ragione a Simon e Garfunkel, è che in quest’arte c’è qualcosa di profetico, ed è proprio l’idea che questi artisti  non firmino con il loro nome di battesimo ma con delle tags, cioè con dei nomi d’arte, e questo certamente ha a che fare con il fatto che sono opere d’arte proibite, ma anche anche con l’idea che l’arte non debba necessariamente essere riconducibile a una persona che su quell’arte lucra, guadagna. Se ci pensate. i  grandi artisti di oggi – quelli mainstream, quelli delle gallerie d’arte – sono tutti dei grandi  imprenditori di se stessi: pensate a Cattelan, pensate a Jeff Koons di cui l’amministrazione comunale  di Firenze ci ha propinato un’opera d’arte, che peraltro rappresentava uno stupro, in Piazza della Signoria qualche anno fa. Jeff Koons è un agente di borsa che poi si è  messo a fare l’artista: e questo dice molte cose. Un uomo molto intelligente, e anche molto, come dire, imprevedibile, che si sposò Cicciolina, che qualcuno ricorderà forse come parlamentare della  Repubblica di questo singolare Paese. Ma il fatto che i writers siano (a differenza di quei ‘grandi’ artisti commerciali, dei quali consociamo in dettaglio la vita privata) artisti in cui esiste solo l’opera e una firma che non contiene la loro anagrafe, è molto interessante e questo fenomeno si può accostare all’arte del Medioevo, che è un’arte con le opere ma senza le figure epiche degli artisti, senza il mito degli artisti: un’arte collettiva, l’arte delle cattedrali. Noi non sappiamo quasi mai i nomi degli autori delle cattedrali, un’arte collettiva fatta da tante persone. Ognuna con la propria personalità: perché gli artisti  medievali hanno ciascuno un loro stile, e lo possiamo ricostruire; ma che in qualche modo lavorano per la comunità. Ebbene, in questo nuovo Medioevo che attraversiamo, accanto ai nuovi feudatari – pensate a Elon Musk – c’è anche, per fortuna, l’antidoto di un’arte non commerciale, di un’arte che non crea il mito del superuomo artista, ma che ci consegna opere che non sono prodotti, e questo probabilmente è davvero profetico.

La Polizia, con tutto ciò che avrebbe da fare, si occupa di perseguitare chi vende libri e si occupa anche di perseguitare – spesso su input della politica – chi dipinge sui muri. Una delle chiavi per difendere gli artisti che dipingono sui muri ce l’avrebbe la mia categoria, quella degli storici dell’arte. Qualche tempo fa sono stato invitato dalla difesa di uno dei più  importanti writers italiani, che si chiama Blu, al processo che lo vedeva come imputato a Torino, perché aveva dipinto su un pilone dell’autostrada. Ora io non so immaginare una cosa più brutta di un pilone di un’autostrada di cemento in mezzo a una valle: e non a una valle qualunque. La Val di Susa in cui Blu aveva disegnato il treno ad alta velocità, il TAV, come un serpente che si morde la coda, cioè  una cosa che serve solo a se stessa, e che nel mezzo come i carri del West difendeva soldi e potere. Blu era sotto processo per imbrattamento: perché c’è un articolo del Codice penale che configura il reato di imbrattamento. Io andai a dire una cosa molto banale: e cioè che quelle cose di Blu erano opere d’arte. E lo potevo dire perché avevo messo l’opera di Blu in un manuale di storia dell’arte per la scuola superiore che ho scritto insieme a Salvatore Settis e ad altre colleghe e colleghi. E di fronte a questo, la sentenza – che è una sentenza importante – dice che il sottoscritto aveva spiegato alla corte che l’autore è conosciuto a livello internazionale come Blu uno degli esponenti più significativi  della street art in Italia, nonché uno dei più importanti d’Europa e che le sue opere di contenuto sociale sono molto apprezzate e aggiungono valore alle strutture dove sono realizzate. Il tribunale dice che quel pilone ora è più prezioso perché Blu ci ha dipinto: allo stesso modo il Sottopasso delle Cure ci è più caro perché è stato dipinto. E alla fine la sentenza dice che considerando  il pregio estetico dell’opera e la fama del suo artefice in rapporto alla banalità del supporto su cui è dipinta (un anonimo muro di cemento che sorregge un cavalcavia) si ritiene che il dipinto non costituisca imbrattamento o deturpamento  ai sensi dell’articolo 639 Codice Penale, il cui evento tipico consiste nell’alterazione  in senso peggiorativo dell’aspetto esteriore, mentre nel  caso di specie siamo di fronte ad un’opera di pregio firmata dalla mano di un artista di fama che va piuttosto a recare ornamento visibilità e valore a un’opera pubblica grigia e anonima. L’autore pertanto va assolto dal reato contestato.

E allora bisogna fare soltanto un altro passo, nello spirito dei writers. Non è che perché Blu è famoso, allora lui si deve assolvere e gli altri no: abbiamo appena detto il passo che bisogna fare è che tutte queste manifestazioni d’arte rendono più preziosa, più umana, più vivibile, più accettabile lo spazio pubblico che invece la nostra politica e il nostro mercato hanno sfigurato.

È stato notato che l’articolo 21 della Costituzione dice che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. E anche le bombolette sono un mezzo per esprimere il proprio pensiero. E poi c’è un altro articolo, il 33: «l’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento». L’arte è libera. Una serie di sentenze che proteggono il diritto d’autore di opere illegali fatte sui muri appare del più alto interesse. Se proteggo il diritto d’autore, significa che stiamo parlando di un’opera d’arte: e dunque di qualcosa che è coperto dall’articolo 33. Infine, l’articolo 42 della Costituzione dice che la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto di godimento e i limiti, allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. C’è un politico (anche qua non facciamo nomi: si chiama Matteo Salvini) che dice che la proprietà privata è un valore assoluto. Beh, non è così per la nostra Costituzione: la proprietà è un valore, ma è un valore relativo protetto dalla legge, e la legge vale meno della Costituzione che dice che la arte e la scienza sono libere. E allora anche quando si tratta di beni privati bisognerà riflettere sul fatto che qualcuno che non ha nulla rende quel bene privato nella sua faccia esteriore sulle strade della città qualcosa che è davvero accessibile a tutti, e almeno in un modo simbolico rende accessibile a tutti ciò che è privato. E quando diciamo ‘ok, ma su casa mia no’, ecco dovremmo tutti riflettere. Credo che qui ci si chieda di fare un  passo in avanti nel progetto della Costituzione: dovremmo domandarci di chi è la città, a chi  appartiene la città. Quando le grandi case di moda o i grandi soggetti commerciali fanno degli  enormi cartelloni pubblicitari sui monumenti in restauro non ci scandalizziamo: e dovremmo, perché la città è di tutti, e loro usano i muri della città per renderci ancora consumatori e clienti; per far  crescere quelli che Pasolini chiamava i bisogni indotti. Dovremmo riflettere profondamente sull’uso che viene fatto dei muri della città contro i nostri interessi collettivi. Allora, io credo che una piccola parte di questa storia di Marco stia in queste parole che ho provato a dire.

Ora lascio spazio all’assemblea, in cui dovremo chiederci come rendere la città un bene comune. Due assessori della giunta comunale hanno deciso di non essere qua: credo che sia un’occasione mancata, francamente. Avremmo preferito averli qua: non credo che abbiano nulla da temere dai loro cittadini. Quando il potere si chiude a Palazzo e rifiuta di parlare con la piazza non è mai un buon segno. Anche perché in questo paese, e in tutto l’Occidente, abbiamo oggi una destra pericolosa e chi dice di non farne parte dovrebbe comportarsi diversamente. Ci è stato detto che il sottopasso non è un museo: beh, io mi chiedo se si possa dire che Firenze non è un  museo. Che cosa è stato fatto a Firenze? Io vivo accanto alla Cappella Brancacci, ho questo privilegio. So come la Cappella Brancacci sia stata separata alla Chiesa del Carmine perché ci si potesse entrare solo pagando un biglietto: e si potrebbe dire ‘una chiesa non è un museo’.

Io credo che, invece, guardare il  sottopasso e guardarlo con gli occhi anche di chi c’è stato tanto tempo a dormire o a vendere libri, cioè guardarlo con gli occhi di chi dalla nostra società non ha avuto nulla, significhi guardare la nostra città come un posto che deve cambiare. Deve diventare più accogliente, deve diventare più umana, deve diventare più giusta: e questo, per quanto possa sembrare strano, può partire anche dall’arte, che è uno dei più potenti strumenti di liberazione che abbiamo.

Grazie!

 

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