Vivere lontano dalla propria terra non significa liberarsi della sua ombra. Per chi proviene da un regime autoritario, il confine geografico è solo un’illusione: la censura non ha bisogno di muri o sbarre per raggiungere chi è fuggito. Si insinua nelle menti, si radica nei gesti quotidiani, si trasmette attraverso sussurri che, anche da lontano, ci fanno temere ancora certe parole.
Noi, cittadini della Turchia residenti in Italia, sappiamo bene che la repressione non finisce ai confini della Turchia. Ci segue, ci osserva e ci comanda di restare in silenzio anche su questa terra in cui abbiamo cercato rifugio. Ma è proprio questa pressione che ci spinge a sviluppare una resistenza mentale; a trasformare la paura in consapevolezza, la censura in determinazione, la fragilità in resilienza.
Crescere nella paura che ogni pensiero possa costare la libertà significa interiorizzare il silenzio come unica forma di difesa. La repressione non colpisce solo chi è rimasto indietro; deforma anche l’identità di chi è stato costretto a costruire sé stesso sulla paura. Criticare un regime non è solo un atto di opposizione: è un’affermazione di esistenza. È una pratica di indipendenza contro la coercizione, un’espressione di sé contro l’oppressione. Ma quando questo diritto ci viene tolto, è il pensiero stesso a deteriorarsi, e con esso si perde una parte fondamentale dell’essere.
Negli ultimi anni, il regime ha sistematicamente attaccato tutte le componenti attive dell’opposizione sociale e politica in Turchia. Migliaia di oppositori, tra cui attivisti, studenti, accademici, giornalisti, sindacalisti, artisti e persino medici, sono stati perseguitati, arrestati o costretti all’esilio. I partiti di opposizione sono stati criminalizzati, i media indipendenti chiusi o assoggettati, e ogni forma di dissenso è stata dipinta come una minaccia alla “sicurezza nazionale”. Le piazze sono state militarizzate, le università svuotate della loro autonomia, le organizzazioni della società civile ridotte al silenzio. In questo contesto, essere “contro” non è solo un atto politico: è diventato un rischio quotidiano, un’esposizione costante alla repressione. Eppure, proprio in questo clima, continua a germogliare la volontà collettiva di resistere.
A questa repressione si aggiunge una strategia più profonda e velenosa: quella della divisione etnica, religiosa e culturale del popolo. La politica del regime, soprattutto negli ultimi quarant’anni, ha promosso e radicato un odio sistemico verso i curdi, gli armeni e altri gruppi minoritari. Ha insinuato il sospetto tra comunità, ha spinto i cittadini a diffidare gli uni degli altri, trasformando la convivenza storica di popoli diversi in un terreno di scontro e sospetto. Il tutto giustificato in nome della “grandezza dello Stato”, dell’unità nazionale e dell’onore della “razza turca”. Il nazionalismo turco è stato imposto come valore sacro, il concetto di “turchità” è stato elevato a criterio di purezza e le élite cosiddette ‘bianche’ hanno interiorizzato questa ideologia come un marchio di superiorità.
Ma la verità storica è un’altra: la Turchia non è mai stata una nazione a identità unica. Queste terre hanno ospitato per secoli popoli diversi: armeni, greci, curdi, assiri, arabi, aleviti e tanti altri. La diversità è la radice di questa geografia, non la sua negazione. Il regime, negando questa verità, ha costruito una macchina ideologica basata sulla paura dell’altro, sull’omologazione forzata e sull’annientamento delle identità. Eppure, ogni lingua parlata, ogni canzone cantata, ogni memoria tramandata diventa una forma di resistenza contro questo progetto di cancellazione.
Questa politica dell’odio e dell’esclusione non è teorica: ha avuto conseguenze concrete, tragiche e profondamente radicate nella storia della Turchia. Dal massacro di Dersim del 1937-38, dove migliaia di curdi aleviti furono uccisi e le loro terre espropriate, fino agli attacchi organizzati a Istanbul il 6-7 settembre 1955 contro la comunità greca e armena, la macchina statale ha agito per “ripulire” l’identità del paese attraverso la violenza e l’intimidazione.
Il caso Roboskî (Uludere) del 2011, in cui 34 civili curdi – per lo più adolescenti – furono uccisi da bombardamenti dell’esercito turco al confine iracheno, è solo uno degli esempi recenti della brutalità di un sistema che non tollera l’esistenza autonoma dei popoli oppressi. Oppure l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink nel 2007, avvenuto in pieno giorno a Istanbul, è il simbolo di una nazione in cui il pensiero critico e l’identità armena sono ancora considerate minacce da eliminare.
Anche le donne, le persone LGBTQIA+, gli aleviti e le minoranze religiose hanno subito una repressione sistematica, a volte invisibile, ma costante. Ogni voce fuori dal coro è stata etichettata come “terrorista”, “traditrice” o “nemica della patria”. L’apparato mediatico e giudiziario è stato mobilitato per zittire, arrestare e isolare chiunq unque denunciasse queste ingiustizie.
Ma la memoria resiste. Le madri di Plaza Galatasaray che ogni settimana chiedono giustizia per i desaparecidos, i sopravvissuti di Roboskî, gli artisti che continuano a scrivere e cantare nella propria lingua, i giovani che nelle università rivendicano spazi liberi… Tutti questi sono semi di una resistenza che non si piega, che cresce proprio nelle crepe del terrore istituzionalizzato.
La nostra voce è un’arma. È il grido che rompe il silenzio imposto, l’eco di un’esistenza che si rifiuta di essere cancellata. In un mondo dove la repressione tenta di dividere e isolare, noi gridiamo insieme. Siamo un collettivo che si rafforza nell’unità, dentro e fuori i confini, perché un popolo è uno solo quando lotta.
La paura che ci vogliono imporre non ci appartiene. È la paura del regime stesso: un potere che trema davanti a voci che si uniscono, davanti alla possibilità concreta di una rivolta. La censura, la repressione, il controllo: tutto questo non è altro che lo specchio della loro debolezza.
Noi non abbiamo mai avuto paura. La paura è loro, di noi. Di noi che alziamo la testa, che occupiamo le piazze, che costruiamo legami oltre ogni muro. La loro forza si fonda sulla nostra frammentazione; la nostra forza nasce dalla loro paura. E finché continueranno a temerci, vorrà dire che stiamo avanzando.
E noi, popolo della Turchia, siamo ovunque. Siamo in America, in Italia, in Australia, in Asia, in Medio Oriente. Ovunque ci sia una casa costruita in esilio, una lingua parlata a bassa voce, un ricordo condiviso con rabbia o nostalgia — lì ci siamo. Siamo ovunque, e ovunque porteremo la nostra voce. Perché non sarà la censura a spegnerci. Non sarà la paura riflessa negli occhi di un potere tremante a fermarci.
Abbiamo imparato a resistere attraversando confini, non a perderci. Abbiamo trasformato l’esilio in lotta, la distanza in connessione, la frammentazione in solidarietà. La nostra voce, anche sradicata, è ancora radicata nella verità. E finché questa verità vivrà in ognuno di noi, nessun regime potrà mai cancellarla.

Hazal Korkmaz

Cara Hazal, ero presente a Firenze insieme ad amici al vostro raduno nei pressi della stazione ferroviaria; avevo portato con me un libro di Hikmet, vostro sommo poeta, ed ho tentato di parlare con voi per iniziare un possibile percorso poetico e politico. Non ci siamo intesi, la lingua diversa non ce lo ha consentito; se vuoi, leggi queste brevi note e sei d’accordo possiamo vederci. Grazie, ciao, Roberto.