Ogni volta che piove troppo, si ripete la stessa scena: città sott’acqua, danni incalcolabili, persone sfollate, poi torna il sole, e con lui la voglia di dimenticare. Ma il clima è cambiato e non possiamo più permetterci questa amnesia. Mentre i territori si sbriciolano, le ruspe avanzano e chi dovrebbe difenderci firma le autorizzazioni a costruire appena la terra è asciutta.
In Toscana come altrove, il tempo della prevenzione sembra finito ancor prima di essere iniziato realmente. I moderni strumenti urbanistici, nati per pianificare lo sviluppo e garantire la sicurezza dei territori, vengono ormai utilizzati dai sindaci come cornici generiche per consentire ogni tipo di trasformazione edilizia, in nome di un presunto sviluppo economico. Si costruisce ovunque, anche in aree fragili, ignorando la realtà più evidente: il territorio non regge più.
La crisi climatica è già qui
I fenomeni estremi non sono più eccezioni, ma la nuova normalità. Le alluvioni del 2023 e 2025 hanno mostrato in modo brutale quanto siano vulnerabili le nostre città. In risposta, la Regione Toscana ha istituito una commissione speciale per la revisione degli strumenti urbanistici, ammettendo che gli attuali piani e strumenti non sono più adeguati di fronte ai cambiamenti climatici in corso. Tuttavia, ad oggi nessun aggiornamento è arrivato da quella commissione.
Ma mentre si rivalutano le carte, sul territorio si continua a costruire e le promesse di rivedere i piani, di fermare il consumo di suolo, di mettere in sicurezza fiumi e torrenti si perdono nei comunicati stampa. Il presidente della Regione, Eugenio Giani, aveva annunciato un cambio di rotta dopo gli eventi del 2023, tuonando verso i sindaci toscani: “Lo dico da presidente della Regione, che nessun sindaco mi venga poi a presentare piani urbanistici dove io stamattina ho visto l’acqua. Noi ci dobbiamo rendere conto, proprio attraverso quella che è la fotografia oggi del territorio, quanto la logica del consumo zero sia importante d’ora in avanti”
Ma a oggi i risultati sono pochi, i cantieri molti e lo stesso presidente in visita nei luoghi colpiti dalla recente alluvione non si è sentito di ripetere quanto detto solo pochi mesi prima a dimostrazione della reale mancanza di volontà in tal senso.
I sindaci e il cemento
C’è anche un’altra responsabilità precisa che non può essere taciuta: quella dei sindaci, che firmano varianti urbanistiche, approvano piani operativi e consentono edificazioni in aree già messe alla prova dal maltempo. Lo fanno ignorando le valutazioni ambientali, sottovalutando le criticità idrauliche, e sovente senza coinvolgere davvero le comunità.
Il risultato è che gli strumenti urbanistici non servono più a prevenire, ma a giustificare. Non progettano la messa in sicurezza, non vincolano interventi di manutenzione idraulica globale ed estesa per tutto il territorio e non ne promuovono più la cura. Servono, piuttosto, a rendere compatibile ciò che non dovrebbe esserlo.
Un esempio lampante è quello di Empoli: colpita duramente dall’alluvione, la città ha visto interi quartieri finire sott’acqua. Eppure, nonostante l’evidenza del rischio, il sindaco non ha ritenuto necessario riaprire una riflessione sui propri strumenti urbanistici, i PSI e i POC, che prevedono nuove edificazioni proprio nelle aree travolte dall’acqua. Una dimostrazione chiara della volontà politica di procedere comunque, anche di fronte a un rischio che è ormai sotto gli occhi di tutti e che – se ignorato – non potrà che aggravarsi.
In una società attenta e padrona di se stessa e dei propri interessi collettivi gli investimenti andrebbero dirottati dalla costruzione del nuovo su terreni vergini, verso il riuso dell’esistente, recuperando aree abbandonate e attraverso progetti di rigenerazione urbana con notevoli vantaggi economici a miglioramento della qualità complessiva della vita come reale cura al degrado ambientale e sociale ormai chiaro per tutti e a cui questi amministratori espongono volontariamente territorio e cittadini.
Il suolo: bene comune o merce?
Tutti i dati ci confermano in ottica futura la cronica stagnazione dei trend demografici nazionali che sommato al dato medio per cui nelle città sono presenti abitazioni vuote e sottoutilizzate per almeno il 30-40% dell’esistente attuale e la stagnazione dei trend economici in presenza di molti capannoni vuoti, arriviamo ad avere una situazione per la quale non esiste una reale e documentata necessità di nuove edificazioni.
Oggi attraverso il recupero dell’edificato esistente e non utilizzato, spesso in degrado, si possono realmente coprire abbondantemente tutte le presenti e future richieste di edificazioni provenienti dal comparto edile e immobiliare per i prossimi 10 anni. Perché, allora, non si segue questa strada? La risposta è una: costruire su un terreno vergine costa meno a chi realizza l’intervento e consente al sindaco di portare facilmente soldi in cassa, ma purtroppo il costo per la collettività rimane a saldo passivo, paragonabile ad un debito perenne e difficilmente estinguibile.
Infatti il suolo, come ricorda da anni Paolo Pileri, è una risorsa non rinnovabile che svolge funzioni vitali e insostituibili: assorbe l’acqua, regola il clima, produce cibo, ospita biodiversità.
Ogni metro quadrato di suolo naturale perso è una perdita collettiva. Secondo i dati ISPRA, ogni secondo in Italia si cementifica una superficie pari a 2 mq, un campo da calcio ogni ora. Quando si copre di asfalto o cemento un singolo ettaro di terreno, si attiva una catena di costi per la collettività: maggiore rischio idraulico, necessità di opere di difesa, perdita di servizi ecosistemici con un impatto economico stimato attorno agli 85.000 euro l’anno per ogni ettaro. Eppure, nei nuovi piani urbanistici regionali e comunali le opere idrauliche scompaiono, perché non ci sono fondi sostituite da nuovo cemento. Sempre meno casse di espansione, sempre meno bacini di laminazione, sempre meno rafforzamento degli argini. Si costruisce, ma non si protegge.
Il piano dei fabbisogni riportato dall’assessore Monni a seguito dell’alluvione del 2023 e prima dell’alluvione del 2025 ammontava a 1 miliardo di euro, da affiancare ai 2,7 miliardi di danni diretti provocati dall’alluvione in tutta la regione, precisando che non è ancora nota la dotazione finanziaria che verrà messa a disposizione della Toscana. I fondi arriveranno dal Fondo Nazionale per le Emergenze, che tuttavia dispone di risorse limitate e dovrà coprire sia le esigenze passate che quelle future (quindi anche quella dell’alluvione del 2025).
I finanziamenti statali, inoltre, non copriranno le opere più grandi e importanti, che richiedono tempi di realizzazione più lunghi. Di conseguenza, gran parte dei costi ricadrà inevitabilmente sulle nostre spalle.
Tutti questi costi sono una responsabilità collettiva che ricadranno inevitabilmente sul già difficile futuro dei nostri figli.
Promesse (non) mantenute
Dopo l’alluvione, tutti hanno promesso: “Mai più”. Ma il tempo delle dichiarazioni non basta più. Fermare il consumo di suolo non è un’opzione: è una necessità. Siamo già in ritardo. Ogni ettaro sottratto alla natura è un metro in meno di sicurezza per le generazioni future.
Chiedere la solidarietà dei cittadini solo nell’emergenza, per poi rifiutare offerte di partecipazione, proposte e critiche costruttive per poi autorizzare colate di nuovo cemento è ingiusto e irrispettoso verso una comunità che ha sempre saputo unirsi oltre ogni barriera o simbolo.
I cittadini lo sanno. Lo dimostrano i comitati e associazioni che ovunque cercano di fare informazione, di decifrare le mappe, di chiedere trasparenza. Ma da soli non bastano. Serve un cambio di paradigma e mentalità, una nuova presa di coscienza collettiva a tutela delle future generazioni prima che l’ennesima bomba d’acqua trasformi in tragedia l’ennesima “variante urbanistica”.
Difendere il territorio non è un compito da esperti: è una responsabilità collettiva. Ogni metro quadro di suolo salvato è un passo verso un futuro più giusto. E quel passo, lo possiamo fare oggi. Insieme.

Marco Cardone

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