Tatuatori e tatuati nell’età post-vittoriana

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Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, accadde che a Londra il tatuaggio divenne un fenomeno sociale largamente diffuso, che coinvolse anche le classi sociali elevate. L’avvio dell’inversione di significato, che aveva visto fino ad allora i tatuati come delinquenti e emarginati, avvenne in seguito alla realizzazione di tatuaggi elaborati sulle pelle di alcuni membri della famiglia reale. Tuttavia non fu l’unico fattore a determinare la diffusione della pratica del tatuaggio tra le classi sociali più elevate nella Londra delle tendenze. Tra i benestanti, e forse un po’ annoiati, giovani delle classi alte di inizio ‘900 il tatuaggio divenne un distintivo di ribellione al conformismo sociale, una risposta al desiderio di modernità e di cosmopolitismo, di apertura intellettuale verso mondi e culture “primitive” o “delinquenti”.

Da qui la percezione del tatuaggio cambiò irreversibilmente, affermandosi come mezzo espressivo e perfino politico di appartenenza attraverso l’esposizione di simboli o disegni incisi nella pelle. Si può dire che in quella Londra che produceva fenomeni comportamentali destinati alla vasta diffusione fuori confine, il tatuaggio nelle sue prime fasi divenne addirittura una forma identitaria elitaria. I disegni e le forme tatuate necessitavano tuttavia di marcare la differenza con quelli delle classi povere e disagiate, piene di cuori spezzati, catene, figure sacre, ancore, simboli erotici.

La transizione necessitava di tecnica e di estetica. Complice la macchina elettrica per tatuaggi, inventata nel 1891 da tale americano Samuel O’Reilly, il tatuaggio poteva godere di una tecnica eccellente e precisa, sicura e rapida. I tempi per la realizzazione di un tatuaggio andavano riducendosi sempre di più, a favore della possibilità di creare disegni complicati ed elaborati. La fonte di ispirazione più seguita era quella del tatuaggio giapponese, una tecnica diffusa in passato e caratterizzata da disegni diffusi su vaste zone del corpo, ad esempio a riempire completamente la schiena o le braccia, colorati e dalle forme fantasiose. Al pari delle tradizioni artistiche e artigianali giapponesi, che prevedono una cura e una specializzazione tecnica tendente alla perfezione, in un concetto quasi spirituale delle abilità pratiche, anche a Londra aprirono le loro vetrine i laboratori di tatuatori ultraspecializzati. Tra i più famosi (e costosi) si ricordano Tom Riley (detto “il professore”), George Burchett, di notevole abilità grafica, Sutherland Macdonald, che aprì il salone dei tatuaggi sotto l’Hammam in Jermyn Street, Alfred South che, nel suo studio al 22 di Cockspur Street, prometteva ogni varietà di riproduzione grafica sulla pelle. Divennero tutti quanti delle celebrità in rapidissimo tempo, in quanto abili nel soddisfare e nel consigliare clienti ricchi e perfino artisti che intendevano replicare sulla pelle i loro lavori.

South vantava una clientela femminile invidiabile. Il fenomeno si era esteso infatti anche al mondo delle donne, stravolgendo la declinazione precedente che vedeva il tatuaggio come segno indelebile di prostitute o di malate psichiche. All’inizio le donne tatuate erano perlopiù le mogli dei tatuatori che rappresentavano una sorta di catalogo ambulante per pubblicizzare le abilità dei mariti. Successivamente il tatuaggio fu impiegato come forma di make-up permanente, con produzione di nei indelebili, sopracciglia folte, ecc. oppure per dotarsi di accessori di vestiario permanenti come collane o bracciali. Ma venne anche il momento per le donne di esibire i disegni della loro pelle come forma di lotta anticonvenzionale, magari nei garden party dei gruppi culturali più elitari.

Insomma il tatuaggio cominciò ad assumere significato sociale, ostentazione di coraggio e anticonformismo ma solo a patto di dotarsi di un abile tatuatore, potremmo dire un artista, e della garanzia di operare in laboratori puliti e sicuri. I tatuatori londinesi venivano etichettati senza esitazioni come “artisti”, cosa che aprì la strada a una ulteriore accezione del tatuaggio come forma espressiva d’arte. Quindi il tatuaggio poteva essere considerato arte? L’amore per il tatuaggio che grado di parentela stava sviluppando con l’amore per l’arte? Il problema non era da poco, perché l’etichetta di “forma d’arte” rischiava di mettere in ombra i presupposti ideologici e politici di una ribellione e di un sovvertimento di significati sociali potenzialmente fuorviante. D’altra parte l’essere ritenuta una forma d’arte offriva il lasciapassare per esperimenti tatuatori anche molto coraggiosi. Forse il problema si trascina ancora oggi nella società attuale, e forse le due parti della questione potrebbero convivere senza danno reciproco.

Vediamo però come venne affrontato, e perfino ridicolizzato, il tema, in un delizioso racconto dello scrittore britannico Hector Hugh Munro, più conosciuto con lo pseudonimo di Saki. Nel 1910 pubblicò un racconto breve dal titolo The Background, nel quale, con humor tutto britannico, racconta la storia di tale Henri Deplis, un lussemburghese che si trovò a viaggiare in Italia. Avendo ereditato una discreta somma da una parente, decise di recarsi da un famoso tatuatore italiano, il più bravo, un certo Andreas Pincini. I due si accordarono per tatuare sull’intera schiena di Deplis la riproduzione di una grande opera, la Caduta di Icaro. Il tatuaggio riuscì un capolavoro, mentre il povero Pincini fece appena in tempo a terminarlo prima della morte. La moglie pretendeva il saldo dell’opera ma il lussemburghese aveva speso tutti i suoi soldi. La vedova Pincini, che si considerava proprietaria dell’opera vista l’insolvenza del tatuato, decide di venderla al comune di Bergamo. Nel frattempo si aprono addirittura dispute sull’expertise dell’opera. Il povero portatore d’arte tentò di uscire dall’Italia ma viene fermato e respinto alla frontiera, con l’accusa di esportazione di opere d’arte. Scappò a Roma, pensando di passare inosservato ma durante un bagno in un hammam venne riconosciuto e nuovamente denunciato. Gli venne perfino vietato di farsi bagni di mare, per problemi “conservativi”, visto che l’acqua salata avrebbe potuto danneggiare l’opera nella sua schiena. Cominciò una vita d’inferno, fino a quando durante una lite gli verrà gettato addosso dell’acido, che rovinerà per sempre l’opera (l’aggressore verrà condannato per distruzione di beni pubblici). Il povero Deplis emigrò, finalmente libero, a Parigi, dove però si ritrovò tristissimo e infelice, deprivato del “valore” della sua identità. È soltanto un divertente commedia tragicomica, ricca di ironia che intendeva forse ridicolizzare il tatuaggio come forma d’arte, o forse l’arte stessa. Non ci sfugge però il finale, nel quale la deprivazione di un tatuaggio significa deprivazione di identità, come se quel disegno sulla schiena fosse finito per diventare un tutt’uno con la sua soggettività.

Forma espressiva, o forma artistica, il tatuaggio finisce per rappresentare una parte di sé, ieri come oggi.

 

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Maria Gloria Roselli

Curatrice del Museo di Antropologia ed Etnologia dell'Università di Firenze. L'oggetto delle sue ricerche privilegia la storia delle collezioni e dei collezionisti, in modo particolare in relazione con l'Oriente. Si occupa di conservazione, riordino e valorizzazione del patrimonio fotografico storico del Museo, svolgendo ricerche su tecniche e storia dell'archivio del Museo.

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