Riprendiamo un articolo scritto da Silvana Grippi e Giulio Gori L’ultimo ricordo di Hasan Atiya al Nassar il poeta esule nato in Iraq e morto a Firenze nel dicembre 2017 a 63 anni. Il centro DEA lo ha sostenuto e proposto al pubblico in una Firenze chiusa e indifferente.
La grande borsa a tracolla che si schiude e rivela una miriade di riviste, di libretti, di fotocopie: dentro ci sono ritagli di poesie, saggi letterari, articoli di giornali da tutto il mondo. Nel bailamme di San Lorenzo, tra i turisti e i bottegai, tra ambulanti che gridano e pendolari che corrono a prendere il treno, Hasan non si arrende alla superficialità e alla fretta, rivendica il diritto alla calma e il dovere a misurare parole di qualità. In un mondo che consuma e brucia, il tesoro contenuto in quella quella borsa che porta sempre con sé è la risposta alla confusione, alla mancanza di umanità. Così, se il corpo stanco di Hasan sembra quasi non volersi muovere, gli occhi color ambra corrono guizzanti dietro a quell’umanità pulsante, eppure perduta: «Poveri stolti», è la chiosa.
Hasan Al Nassar è un poeta. Un poeta superbo. I versi scritti di getto, rimaneggiati infinite volte alla ricerca dell’equilibrio che la sua vita esteriore non sembra avere, riecheggiano lo stile di Vladimir Majakovskij, ma si fondono con immagini del tutto diverse: la vicenda è quella di un esule iracheno senza patria, tra migrazioni di beduini, richiami all’antica Babilonia, ma anche a una profonda cultura musulmana cui non fa da contrappunto la fede, assieme alle scene di una Firenze meno celebrata: quella delle piazze vuote della notte, quella degli autobus, dei vinai, della solidarietà in uno sguardo con un volto sconosciuto. Le parole fluttuano tra soggetti diversi – dall’oratore, al pensiero, ai personaggi – in uno spazio-tempo che risulta annullato da una dimensione spesso onirica.
Hasan Al Nassar canta le marginalità, lui che ai margini è stato costretto dalla Storia: giovane giornalista e poeta dissidente, nato nei sobborghi di quella Nassirya che a lui piace chiamare con l’antico nome di Ur, all’inizio degli anni 80 fugge dall’Iraq per il rifiuto di imbracciare le armi. Due suoi fratelli non hanno la stessa buona sorte, vengono giustiziati come renitenti alla leva. Arrivato in Italia da profugo, qui ottiene il riconoscimento del suo diploma, si laurea in Lettere all’Università di Firenze, frequenta un dottorato all’Orientale di Napoli, si iscrive alla «Lega degli scrittori, giornalisti e artisti democratici iracheni». Comincia a scrivere anche in italiano e la prima raccolta nella nostra lingua arriva nel 1991 con «Poesia dall’esilio» delle Edizioni Dea. Hasan viene citato sulle grandi riviste poetiche internazionali, le critiche sono entusiastiche, per la sua capacità di fondere mondi opposti, evocare immagini talvolta allucinate, di schiudere le porte dei nostri inferi.
Ma la sua anarchia, il suo disordine, gli impediscono di accedere ai piani alti dell’editoria, di crearsi una vita – e non solo un nome – attraverso i suoi versi: la sua poetica, del resto, è legata ai paradisi artificiali che costantemente esercita e rivendica, e che persino imbarazzano alcuni dei suoi amici e sostenitori. «Senza bere, ho scritto solo versi volgari». I suoi sono viaggi, missioni dantesche in un aldilà di sconfitti, di profughi, di nomadi del deserto e delle notti fiorentine, in cui però il paradiso – quell’albero sotto il quale i migranti vorrebbero riposarsi, trovare una patria – non arriva mai.
I riconoscimenti si moltiplicano, il successo commerciale – che gli consentirebbe non un’esistenza agiata, ma almeno il quieto vivere – invece no. Oltre a premi nazionali, è ospite d’onore nel 2005 all’Università di Roma Tre, dove pronuncia la sua lectio magistralis; e a chi gli chiede perché i poeti iracheni non scrivano mai poesie d’amore, risponde «Aspettate da noi poesie d’amore, poesie di un universo svuotato di carriarmati e fucili. Aspettate, perché un giorno saremo anche noi cantori di panorami stupendi, di albe, di mattini che coprono l’acqua del fiume, del sole quando sorge dalle rocce. Io vi dico: quel giorno, aspettate da noi testi che non portino in sé parole come morte, dolore, paura, lutto, desolazione, abbandono». Per Dea, Hasan continua a raccontare sé e i suoi universi: la nuova raccolta di versi «Roghi sull’acqua babilonese» (2003), il cortometraggio «Shaar al Manfa» (2004). Poi, tra numerose nuove poesie, intraprende l’avventura della sua prima opera in prosa, che non vedrà mai la luce.
Hasan Al Nassar è morto la notte di Natale del 2017, con pochissimi amici rimasti ad aiutarlo e ad accudirlo. La sua vicenda è lo specchio di una Firenze che non ha saputo capirlo fino in fondo, ma anche di un’editoria che ha trascurato la produzione letteraria islamica, rendendo inaccessibile al pubblico italiano una cultura fecondissima; anche in casi in cui, come per Hasan, non ci sarebbe stato bisogno di alcuna traduzione. Come in «Rovina», quando grida a un mondo indifferente il dramma degli esuli:
Voglio una Patria, voglio
un albero sotto al quale
possano distendersi gli
uomini randagi

Redazione

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